Libero dopo 16 anni di carcere. Antonio Guerrero è uno dei cinque agenti cubani detenuti negli Stati uniti e condannati a lunghe pene dopo un processo ingiusto. Si erano recati a Miami per disinnescare una rete di attentatori anticastristi foraggiata dalla Cia, allora particolarmente pericolosi. Un’attività di prevenzione che avrebbe salvato molte vite, non solo cubane, giacché i mercenari erano soliti mettere bombe sugli aerei. Con la mediazione dello scrittore Gabriel Garcia Marquez, Fidel Castro offrì allora collaborazione agli Stati uniti. Il governo Usa preferì però prestare orecchio alle potenti lobby anticubane piuttosto che alla ragionevolezza e ai lodevoli intenti dell’intelligence dell’Avana. Il resto è noto: i Cinque hanno subito pesanti condanne durante processi evidentemente politici e viziati.

Nel 2009, dopo l’arresto di una spia Usa sul territorio cubano, Alan Gross, l’Avana cerca di aprire una trattativa: mettendo però in chiaro che – come tiene a precisare Guerrero in questa intervista – «tra noi e un mercenario non c’è equivalenza, né quanto a obiettivi, né per motivazione. Lui lo fa per denaro e con fini eversivi, noi per ideali e per difendere il nostro paese». Insieme ai suoi compagni (due erano già usciti dal carcere), Guerrero è rientrato in patria il 17 dicembre per decisione di Obama: un segnale di disgelo per la ripresa delle relazioni fra Cuba e Usa che ha già mosso i primi passi con la cancellazione di Cuba dalla lista dei paesi «terroristi» stilata con arroganza da Washington.

A fine maggio, Guerrero è venuto in Italia per un giro di conferenze, invitato dall’Associazione di amicizia Italia-Cuba, e accolto da movimenti, circoli e organizzazioni che hanno animato la campagna di solidarietà internazionale. A Roma, ha tenuto il tavolo insieme all’ambasciatrice cubana Alba Soto Pimentel, ad Alessandra Riccio e a Gianni Minà, della rivista Latinoamerica. A una platea attenta, Guerrero ha parlato delle carceri Usa, delle forti motivazioni che lo hanno spinto, e degli anni trascorsi studiando, dipingendo e scrivendo poesie. «L’arte è stata una chiave per immaginare e costruire liberazione, mi piace molto la canzone dei Beatles, Imagine», ci ha detto il giorno dopo quando lo abbiamo incontrato per questa intervista.

Quando viene arrestato, ogni prigioniero si chiede dove abbia sbagliato. Lei che idea si è fatto, come mai vi hanno preso?

Non penso si possa parlare di errori tecnici, anche se non possiamo sapere come nacquero gli indizi, quali particolari conosca l’apparato d’intelligence Usa. Per noi è stato difficile credere che un paese come gli Stati uniti, che si dichiara perennemente in guerra contro il terrorismo permettesse e permetta a terroristi dichiarati di organizzare attentati e non volesse cooperare con Cuba per difendere cittadini innocenti. Noi abbiamo giocato pulito, la nostra azione non era rivolta contro il governo degli Stati uniti. Gli abbiamo trasmesso informazioni che fino a quel momento non erano riusciti ad avere. E abbiamo subito ammesso di essere agenti non dichiarati e con un compito di prevenzione negli Usa. Cuba ha inviato uomini disposti a correre un grande rischio contro un apparato di intelligence con enormi mezzi e potenzialità, ma senza intenzione di far danno. L’andamento del processo ha però subito dimostrato la volontà di picchiare duro, non perché avessimo violato la legge, ma per castigare Cuba. Allora era questo il clima, si voleva alimentare il conflitto fra i due paesi, i documenti declassificati mostrano quello che abbiamo dovuto affrontare. Speriamo che ora le cose possano andare diversamente. Stiamo aprendo degli spazi per adattarci alle nuove condizioni esistenti nel mondo, ma senza smarrire la rotta. Di certo abbiamo commesso errori, ma non si può guardare al passato con gli occhi del presente, e viceversa. Bisogna andare avanti, e nessuno può farlo da solo.

Per Cuba e per i movimenti di solidarietà che vi hanno sostenuto, voi siete i Cinque eroi…

Non sono un eroe: non più di quanto lo sia chi semina o chi pulisce la strada e fa bene il proprio lavoro. Ho semplicemente fatto il mio dovere. Ci sono tanti compagni che hanno pagato o pagano una quota di sacrificio, e noi abbiamo fatto la nostra parte. Quando si accetta un impegno come il nostro, occorre avere una motivazione forte, perché si deve lasciare tutto, bisogna far credere anche ai propri cari di essere diventati persone diverse, di aver tradito. Così abbiamo infiltrato la rete terrorista. Quando ti si chiede se sei disposto a un compito simile, pensi ai grandi precursori, che hanno dato la vita per una causa nobile, pensi a quello che stai difendendo e alle ragioni profonde per farlo… È una missione, la devi compiere. Dopo, tutto diventa un po’ più facile: «Nella vita – diceva José Marti – hai due possibili opzioni: metterti dal lato in cui si vive meglio oppure assumere il compito che ti spetta. E questo ti definisce come essere umano». Tanti compagni sono andati a lottare e a morire in altri paesi. I nostri medici vanno a rischiare la vita in Africa per combattere l’ebola. Anche oggi che tutto ti spinge a stare dal lato comodo della strada, sono convinto che siamo in tanti a poter capire quello che dico sulla necessità della scelta e sul sacrificio. A Cuba è ancora così. Quando la rivoluzione chiede: chi vuole andare? I giovani fanno a gara per alzare la mano. Non è una questione di eroismo, ma di empatia, di percepire l’essenza dell’essere umano: la capacità di sentire il dolore degli altri, di sentirsi responsabili se c’è chi si arroga il diritto di toglierti il tuo ad esistere e a decidere in autonomia, se c’è chi sfrutta o chi non lavora, chi commette un delitto o smarrisce la strada. Ci sono sempre delle ragioni, e ci si deve chiedere se abbiamo agito bene per individuarle e per risolverle. Vi sono problemi sociali la cui soluzione riguarda tutti. Siamo esseri umani complessi, ma abbiamo la capacità di percepire l’amore e possiamo educarci a comprenderlo. Il modo migliore per combattere il terrorismo è sedersi a discutere i problemi fra paesi e arrivare alla radice che li causa, agli interessi che li producono, e provare a combatterli.

Molti pensano che, con la loro esperienza e il loro carisma, Los Cinco devono entrare in politica…

Lo so, molti pensano sia solo questione di prestigio e che questo basti a dirigere. Ma anche quelli che dirigono, hanno un prestigio che gli deriva dall’aver compiuto un certo percorso. Per avere una responsabilità, bisogna aver acquisito autorevolezza, in base a capacità e competenze riconosciute. All’inizio della rivoluzione, abbiamo avuto tanti combattenti prestigiosi che hanno assunto compiti di direzione, però non avevano le competenze necessarie in determinati campi, e così le cose sono andate più a rilento. Dirigere? Ma per noi gli incarichi sono transitori, si assumono come si svolge un compito, non per scalare posizioni sociali. Quando siamo usciti, abbiamo detto al presidente Raul Castro: eccoci, siamo a disposizione per quel che serve. Lo abbiamo detto con lo stesso entusiasmo nella direzione della rivoluzione di quello che avevamo quando siamo andati via da Cuba, 24 anni fa. Non abbiamo nessun’altra aspirazione che quella di essere utile alla rivoluzione. Io mi sentirei perfettamente realizzato a fare il maestro in una delle comunità che ho ritrovato, o nel realizzare progetti, visto che sono ingegnere. Con la loro lungimiranza, i nostri dirigenti ci hanno detto però di aspettare, in fondo sono solo cinque mesi che siamo fuori. E se c’è ancora bisogno di noi per andare all’estero a ringraziare chi ci ha sostenuto o per essere ambasciatori di pace, come facciamo con il lavoro quotidiano? Aspettiamo, quindi. La politica si fa con l’esempio, la politica è dappertutto: in un consultorio, in un quartiere, in una strada. Se non avessimo dato importanza a questo modo di far politica, non saremmo usciti fuori dalle terribili difficoltà degli anni ‘90. Allora, davvero, non avevamo niente, e per venirne fuori abbiamo pagato un prezzo alto. Ora nei negozi si trova di tutto, le difficoltà che abbiamo adesso, si possono risolvere. Ma se c’è un posto in cui più esistono le possibilità di avanzare verso una società ancora più giusta ed equa, come cerchiamo di fare noi ogni giorno, quella è Cuba.

Qualcuno ha detto che Fidel non vi ha ricevuto subito perché non era d’accordo a farvi uscire dal carcere in questo modo, perché avrebbe preferito percorrere la strada di un nuovo processo…

Ah, ma questi sono i giornalisti delle vostre parti che, pur di far vendere qualche copia in più ai loro padroni, anche se li costringono in un recinto prestabilito, s’inventano gli scoop inesistenti. Fidel ha aspettato a riceverci per lasciare la prima parola ai cubani, al presidente Raul che è venuto ad aspettarci all’aeroporto. Poi siamo stati con lui per quasi cinque ore, a parlare come se fossimo in famiglia. Ho tanti ricordi belli di quell’incontro, per esempio quando ci ha porto il suo cucchiaio e il vasetto di yogurt perché assaggiassimo un nuovo prodotto di Cuba. Si vedeva che Fidel era molto felice di averci con lui, ci trasmetteva le sue emozioni. Guarda che Fidel ha un grande peso nelle decisioni del mio paese e nella loro realizzazione concreta. Resistere e ritornare senza svendere i nostri principi, questa era la posizione di Cuba e di Los Cinco. A un certo punto, è stato arrestato un agente della Cia, Alan Gross. Raul Capote ha raccontato quali fossero allora le trame di Washington contro di noi in quel periodo. Volevano corrompere gli intellettuali, creare una nuova classe dirigente da usare per il piano destabilizzante che avevano in mente. Di certo, non può esserci equivalenza tra le persone come noi, disposte tranquillamente a sacrificare la vita per i propri ideali, e quella di chi lo fa per denaro. Sono situazioni ben distinte e così sono state trattate a partire dal momento in cui si è aperto uno spiraglio. Fidel ha agito nello stesso modo in cui fece quando si trovava sul Granma. Allora, quando la barca dei rivoluzionari stava avanzando verso la nostra isola, un compagno cadde in acqua. E tutti si fermarono a salvarlo, per continuare insieme…

A proposito di viaggi. Voi siete stati ultimamente in Venezuela, il paese che più ha raccolto l’eredità di Cuba e gli strali degli Usa. Che giudizio ne dà?

Guarda, per esperienza diretta posso dirti che nei posti più reconditi dove da poco è arrivata la luce elettrica, c’è un medico cubano che ti racconta quale straordinario cambiamento si sia messo in moto in questi 16 anni di governo socialista. In quei posti, i medici venezuelani non vogliono andare, preferiscono fare i soldi nelle cliniche private. Il Venezuela è un paese petrolifero che importa gran parte degli alimenti che consuma. I grandi gruppi privati cercano di provocare uno scontento, perturbano la distribuzione e il commercio. Il fatto è che il Venezuela si è convertito in un faro irreversibile di giustizia e distribuzione delle risorse, e questo esempio fa paura. Il capitalismo non può prosperare senza saccheggiare le risorse. Non può mantenere il livello di spreco per pochi senza sfruttare risorse umane a bassissimo costo per i propri interessi. Ho vissuto negli Usa. Ero cittadino statunitense ma non parlavo bene la lingua e venivo trattato come un migrante: lì ci sono mestieri dequalificati, destinati solo agli ispanici e ai neri.