Saverio che non sa andarsene

Un libro che è amore per una città, i suoi rumori e i suoi – violenti – silenzi. E poi è il racconto di un ragazzo che, a Napoli, vive e lavora. Saverio parla poco e i compagni pensano che sia scemo, lascia la scuola 16 anni: fa il becchino, prima apprendista e poi titolare. Prende le misure ai morti perché le casse calzino a misura, né troppo strette né troppo grandi. E insieme ai morti, raccoglie storie, dolori, profumi e puzze di una città narrata vicolo per vicolo. E poi le piazze e poi il mare e poi Posillipo. Saverio è il protagonista di Volovia di Antonio Ferrara (Einaudi ragazzi, pp.180, euro 11 euro), nelle sue frasi – poche e laconiche – si inceppa la lingua e il pensiero. Solo uno ritorna ossessivo tra le salme che raccoglie per lavoro e quelli di casa e di famiglia: «volo via».

Antonio Ferrara racconta la voglia di andarsene da quei quartieri, e da quel mare e da quel cielo, in una lingua scarna e sincopata come quella del suo protagonista. Eppure non basta la morte del padre, quella dello zio e della cugina a far sì che Saverio lasci Napoli. Qualcosa lo tiene inchiodato alla città: prima mantenere agli studi la sorella che da rammendatrice di camicie si fa rammendatrice di vite diventando medico, poi la casa nuova per la madre. Anche se il padre viene ucciso, e così succede pure agli altri famigliari, Saverio non riesce ad andarsene. «Volo via» è un pensiero e una via di fuga che permette, e promette, sopravvivenza ma custodisce un segreto.
Antonio Ferrara, prolifico autore per ragazzi, educatore presso una comunità per minori, racconta il disagio e la fatica dell’infanzia e dell’adolescenza ma i suoi personaggi non hanno nulla di stereotipato: sono arrabbiati o dolenti, stranieri e straniati che si ritrovano in testa e tra le mani un’occasione di credere e crescere. La sua opera più conosciuta, Ero cattivo, gli ha valso nel 2012 il premio Andersen.

Intrecci inquietanti tra cibo e sonno

Il linguaggio dei sentimenti precede quello della parola e il cibo come il sonno ne sono un nodo potente. È un terreno sul quale si giocano ben altro che sonni sereni e pasti lieti, in particolare nella relazione tra madre e figlia. A raccontarne un versante inconsueto è Lidia Ravera in La bambina che non dormiva mai (Rizzoli, pp. 48, euro 16), con le belle illustrazioni di Monica Barengo. La protagonista che non vuole dormire, pronta a camminare sul soffitto piuttosto che cedere al sonno, è restituita dalle tavole con lo sguardo leggero ma nel racconto diviene inquieta e disobbediente. La mamma, come da tradizione, è brava e accudente e, di fronte al rifiuto della figlia, decise di smettere di mangiare»: «Sembrava un capriccio – scrive Ravera – invece era disperazione». A furia di saltare pasti, diviene sempre più piccola, tanto da stare in un cucchiaino e rischiare di essere mangiata dalla propria bambina a colazione. A risolvere la situazione è, per fortuna, l’intervento salvifico del Sonno che si rivela essere «un vecchio signore con la barba mezza bianca e mezza grigia». È lui che offre alla bambina il soccorso necessario a salvare la madre: invia, infatti, un passerotto che la becca piano «e la bambina piombò in un sonno profondo». L’ordine è così stato ristabilito: lei dorme volentieri, sua madre riprende a mangiare e tutto torna a posto. Ma quel nodo dolente che riguarda sonno e cibo, quell’intreccio di relazioni tra emozione e affetto, rifiuto e contrasto, colpa e disagio – sia nell’adulta che nella piccola protagonista – non trova spazio nel racconto.
Insomma, dopo le tante bambine ribelli dell’editoria recente qui la soluzione è obbedienza e sacrificio.