La crisi pandemica ha fatto emergere un mercato del lavoro a tre teste – afferma Antonio Casilli, docente di sociologia presso l’università Télécom Paris – Ci sono persone che possono tele-lavorare da casa durante la quarantena. Lo “smart working” è molto celebrato, ma la possibilità di ricorrere a questo uso delle piattaforme digitali non supera in media il 30 per cento della forza lavoro dipendente. Nel lungo post-quarantena lo “smart working” potrebbe essere imposto e non scelto. In alcuni casi potrebbe essere il preludio al licenziamento, al part time involontario o al taglio del costo del lavoro».

Quali sono le altre teste?
La seconda è costituita da lavoratori precari o dipendenti già attivi che non possono tele-lavorare. Il personale medico, quello della grande distribuzione, i trasporti pubblici e i lavoratori di prossimità. Tra questi ci sono i lavoratori delle consegne dell’ultimo chilometro: i rider in moto o in bici, i driver con i camioncini che Amazon considera “liberi professionisti” o conto-terzisti e sono invece alle sue dipendenze. Consegnano le merci a chi è in quarantena e sono diventati più visibili quando le folle sono scomparse dalle città. La terza testa è quella dei lavoratori dell’automazione che moderano i commenti sui social network o allenano gli algoritmi a diventare “intelligenti”. Oggi il traffico di dati è enormemente aumentato a causa della reclusione di miliardi di persone. Questi “operai” digitali, a volte dei cottimisti pagati a clic, operano in tutto il mondo e, pur essendo molto numerosi, sono a volte impossibilitati a radunarsi nelle fabbriche del clic dove operano in Spagna, in Irlanda, paesi anche loro in quarantena. E, se operano da casa, o da smartphone, sono pochi per gestire lo spam e le fake news che si sviluppano nelle relazioni digitali.

Che ruolo occupa il lavoro di cura in questa divisione del lavoro in quarantena?
La gestione delle relazioni familiari e delle mansioni è distribuita in maniera diseguale e il peso è ancora più forte sulle donne. Ha ragione chi rivendica il riconoscimento di un reddito per permettere l’autodeterminazione delle donne in un contesto drammatico dove aumentano le violenze domestiche e gli omicidi. In molti casi le donne lavorano nei settori di prossimità, nella grande distribuzione o nel settore sanitario. I sindacati stanno chiedendo aumenti, tutele e la regolarizzazione di lavoratrici che sono costrette ad operare nell’economia informale. La soluzione può essere dunque duplice: da una parte ci vuole un reddito che permette l’autodeterminazione, dall’altra i diritti del lavoro.

È emersa la divisione tra chi non ha sussidi ed è in povertà e chi può comunque accedere a una precarietà piattaformizzata per cercare di guadagnare. Qual è il ruolo delle piattaforme digitali in questa nuova stratificazione sociale?
Nominalmente, aiutare i lavoratori. In realtà, rafforzare il loro sfruttamento. In un contesto dove a un enorme numero di persone, anche lavoratori autonomi, sono stati estesi in maniera eccezionale i classici sussidi sociali, esiste una moltitudine di persone che non hanno accesso al welfare. Il lavoro digitale è un’opportunità per sbarcare il lunario e una giustificazione legale per uscire di casa. Assistiamo anche a una trasformazione delle piattaforme. Uber, specializzata nel trasporto privato non di linea, sta cercando di reinventarsi come trasportatore di merci dell’ultimo chilometro.

Quali sono i rischi che corre chi lavora per queste piattaforme?
Prendiamo il caso del «Contactless delivery», la consegna senza contatto. I fattorini non consegnano direttamente, ma lasciano la merce fuori dalla porta o nel portone. Ma la sicurezza è solo per il consumatore. Questi lavoratori devono relazionarsi con i ristoratori o gli hub di consegna, viaggiare in città, correre ogni tipo di rischio. Dare il monopolio a queste piattaforme significa riconoscere il monopolio di usare un linguaggio che stravolge la realtà.

Perché i gig workers protestano in molti paesi?
Le piattaforme cercano di abbassare il prezzo del lavoro, quando la domanda aumenta. In Spagna accade con Glovo che ha dimezzato la tariffa base e sta provocando ondate di scioperi. A Madrid c’è stato il primo sciopero di strada in una città in quarantena. Azioni sindacali che prima erano scioperi selvaggi si stanno organizzando per il primo maggio anche negli Stati Uniti. Si aprono nuovi fronti di conflitto attorno le piattaforme e contro la loro visione angelicata dell’innovazione. È uno scenario comune all’economia delle app, alla grande distribuzione e all’e-commerce su Instacart, Amazon o Whole Foods.

In che modo è possibile riconoscere i diritti dei lavoratori digitali dell’ultimo chilometro?
Questo era un problema scottante prima dell’epidemia, ora è ancora più urgente. Esistono due orientamenti: fare rientrare il lavoro della consegna dell’ultimo chilometro in quello subordinato, garantendo le tutele. È la posizione prevalente tra i sindacati e in alcuni attori della società civile. Non tutti sono però d’accordo. Tra i lavoratori alcuni chiedono addirittura la chiusura o la collettivizzazione delle piattaforme e l’estensione dei diritti oltre il lavoro salariato. In entrambi i casi non si hanno conseguenze negative. In un contesto come quello attuale, con una recessione mai vista, essere riconosciuti salariati di aziende che possono scomparire da un momento all’altro, potrebbe non essere l’unica soluzione.

Didattica a distanza, piattaforme, social media, logistica. Il capitalismo digitale sarà uno dei vincitori della crisi?
È una conclusione probabile. È in atto una cattura sociale e un’appropriazione del valore. Una serie di servizi offerti in modalità alternative sono stati sussunti da WhatsApp, Instagram, Zoom e compagnia. È urgente capire come organizzare diversamente una società evitando la subalternità alle retoriche sull’automazione che occultano l’attività di persone senza diritti ma svolgono un lavoro fondamentale.