Non gli sarebbero piaciute tutte queste lacrime che stiamo versando per lui. Antonio Calabrò le avrebbe considerate un inutile sciupio. Fate quello che dovete fare e andate dove dovete andare, avrebbe detto: vedrò anch’io cosa potrò fare, se qualcosa ancora potrò fare, là dove sono andato a finire, se da qualche parte sono andato a finire. Te lo auguriamo, Antonio, di trovare altri luoghi e altre cose da fare. Tu da vivo ne eri certo, forse noi, oggi che sei morto, ancor meno di prima.

Di certo, per come hai trascorso i tuoi sessant’anni, è difficile ora immaginarti senza far niente. Speriamo per te che ti stia almeno riposando un po’, considerando che non l’hai mai fatto prima. Sempre a star dietro a chi aveva bisogno di essere aiutato e curato. Non ti bastava lavorare in ospedale, dovevi per forza fare di più. E neanche ti chiedevi il perché, facevi ciò che sentivi e così ti riempivi la vita, una vita che avevi deciso di mettere a disposizione di sofferenti e bisognevoli.

Quando sei venuto da me, su al quarto piano del Municipio, e mi hai detto che volevi aprire un ambulatorio per tutti quelli che non potevano curarsi, poveracci, clandestini, psicotici refrattari e inguaribili cronici, ho pensato che fossi infettato da qualche forma di eroismo contagioso. E infatti mi contagiasti. E quell’ambulatorio riuscimmo ad aprirlo, anche se in quel modo sbrigativo, disinvolto e spericolato con cui si facevano le cose nell’allora X Municipio. Senza mettersi in fila a chiedere autorizzazioni che mai sarebbero arrivate, senza chiedere finanziamenti né sostegni che mai avremmo ottenuto. Lo facemmo e basta, con i ragazzi della cooperativa che allacciarono le condutture d’acqua e accesero l’impianto elettrico.

E per anni sei stato lì, nel tuo ambulatorio generoso, in quella piazzetta di Cinecittà, a misurare la pressione e fare elettrocardiogrammi, a prescrivere farmaci e rimedi che tu stesso consegnavi gratuitamente, a mandare i pazienti dai tuoi colleghi, convincendoli teneramente a curarli, a ordinare ricoveri che mai nessuno, in nessun ospedale avrebbe accolto.

Ma non ti bastava. Se non venivano da te, i malati te li andavi a prendere: nei canneti di Tor Vergata, nelle marane di Morena, nelle baracche della Romanina, nei fossi degli antichi acquedotti. Eri un po’ come San Francesco; e ora possiamo anche dircelo che in fondo ti piaceva sentirtelo dire. Per quanto privo di terrene vanità, qualche piccolo narcisismo te lo concedevi: se non altro, perché indossavi spesso sciarpette civettuole e amavi andartene in giro soavemente spettinato.

Ora che te ne sei andato, sarà difficile fare a meno di te e delle tue sciarpette. Ci mancherai, ci mancherai tantissimo. Ci mancheranno le tue risate scoppiettanti da mezzosoprano ispirato e la tua voce rauca e calda da cantante blues innamorato.

Anto’, che ti devo dire… Dopodomani mattina, 22 ottobre, verremo al tuo funerale nella chiesa di Don Bosco, senza carrozze né elicotteri.

Verremo per salutarti, per piangere un po’. Lasciacelo fare.