Mani, piedi, volti di donne, uomini e bambini con gli occhi chiusi che escono dal buio, cercando la loro collocazione in uno spazio che attraversa il tempo. Antonio Biasiucci (Dragoni, Caserta, 1961, vive e lavora a Napoli) costruisce così il suo polittico di ventotto immagini.

Il titolo è The Dream, perché sogno è una parola ricorrente nei discorsi dei profughi. Usa il consueto formato quadrato, ricorrendo al bianco e nero fortemente contrastato che, come in altri lavori – da Vapori al più recente Moltitudini – evoca sempre quella sospensione che implica la totalità dell’esperienza. Prendere parte al progetto Lying in Between. Hellas (a cura di Filippo Maggia), promosso da Fondazione Fotografia Modena e Fondazione Cassa di Risparmio di Modena in mostra al Foro Boario, tra le iniziative del festivalfilosofia (fino all’8 gennaio 2017), è stato per il fotografo campano fonte di perplessità per via dei tempi ristretti. Quanto agli imprevisti, sono entrati a far parte del lavoro, attribuendogli nuovi significati. La missione fotografica in Grecia, nelle isole di Leros, Chios, Samos, Kos, Lesbos e nella zona continentale di Idomeni, vicino al confine macedone, avviata nella primavera scorsa con il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e dell’Ambasciata di Grecia, prosegue quella linea esplorativa dellaimmagine sociale di Fondazione Fotografia che, nel tempo, ha prodotto mostre straordinarie come Breaking News. Fotografia contemporanea da Medio Oriente e Africa, Decimo Parallelo Nord, Fotografia Contemporanea da India e Sudamerica e Three True Stories. Zanele Muholi, Ahlam Shibli, Mitra Tabrizian.
Stavolta, a testimoniare la drammatica emergenza degli sbarchi quotidiani di migliaia di profughi in fuga da guerre, violenze e indigenza e l’impatto di questa realtà sul territorio e sulla popolazione locale, sono stati chiamai oltre a Biasiucci altri sei fotografi italiani: Antonio Fortugno, Angelo Iannone, Filippo Luini, Francesco Mammarella, Simone Mizzotti e Francesco Radino.

27clt1Antonio Biasiucci, The Dream, 2016 (part. del polittico)  2

Le mani e i piedi
Il progetto, accompagnato dalla videoinstallazione Untitled. Hellas 2016 ha anche una declinazione benefica a cui hanno aderito tutti gli autori, destinando i proventi di edizioni limitate ai volontari indipendenti di Samos Volunteeres. Biasiucci è stato l’ultimo del gruppo a partire, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno scorso, insieme all’assistente modenese Luca Monzani. «Nel realizzare questo lavoro, prima di partire, avevo i mente un’idea che mi era venuta dopo aver visto in televisione i migranti scendere dalla nave e mostrare ai medici mani e piedi, perché questi potessero capire se avevano la scabbia. Un gesto che mi aveva colpito molto. A un tema analogo avevo già lavorato nel 2009, quando al Museo di antropologia di Napoli avevo fotografato calchi di persone con gli occhi chiusi di varie etnie del Nordafrica. Ne feci un lavoro sui migranti che muoiono nei nostri mari. In un certo senso, mi riallacciavo a questa esperienza precedente, inserendo anche mani e piedi, cosa che mi ha creato molti problemi: dopo qualche giorno in cui avevo realizzato degli scatti ci sono state delle persone che hanno cominciato a pensare che le mie fossero foto segnaletiche».
L’incontro con il curdo-iracheno Rouaf, a Chios nel campo profughi di Souda, avviene casualmente. I due si scrutano reciprocamente, stimolati da un’immediata sintonia che ha permesso a Biasiucci di portare avanti il suo lavoro.
«Quando nel campo era palese che non ero più gradito, Rouaf vedendo che mi ero bloccato mi ha detto una frase che mi ha letteralmente scioccato. ’È un peccato non concludere il lavoro, perché è importante. Forse potrei fare io quelle foto al posto tuo’. Una cosa del genere mi sembrava inaccettabile. Ha poi aggiunto che avrei potuto insegnargli a fotografare. Dopo una notte insonne, ho deciso di accettare la sua proposta, pensando che se Rouaf avesse fatto anche soltanto una fotografia da mettere all’interno del mio polittico, sarebbe stata la testimonianza di un incontro importante, quello di due persone in una terra straniera. Ho tenuto tre giorni di workshop, con Luca che alzava le piccole torce e io che facevo il modello – il profugo – mentre Rouaf mi fotografava. Con la macchina digitale, potevano avere verifiche continue. Fotografavo in sottoesposizione di 3, 4 diaframmi e lui doveva necessariamente lavorare con la messa a fuoco manuale. Gli ho insegnato a fotografare nel mio modo».

Lo sguardo interno
«È stato importante per me: lui era un profugo che riprendeva i suoi simili – continua Biasucci -. Rouaf è una persona molto colta – un po’ più giovane di me – per certi versi misteriosa, con qualcosa di non risolto nella sua personalità. Forse anche lui avrà pensato la stesa cosa di me. Prima di andare a fotografare, ha preteso di vedere i miei lavori e che gliene parlassi. Non ho mai fatto un seminario così lungo, tecnico e teorico, sulla mia produzione! Così, quando nel campo militare di Vial, gestito da Frontex, sono stato mandato via in malo modo, lui che era stato lì precedentemente e aveva ancora il braccialetto che gli permetteva di entrare, ha preso con sé la macchina fotografica. Mi ero raccomandato di ritrarre solo le persone che conosceva. Nel frattempo Luca ed io lo aspettavamo nascosti nella montagna. Dopo qualche ora lui non tornava.
Ho creduto di avergli distrutto il futuro, perché avrebbe potuto essere fermato dalla polizia con quella macchina fotografica iper.professionale. Temevo di averlo messo in un pasticcio enorme. Verso mezzanotte, quando ormai avevamo perso le speranze, finalmente ci ha chiamato. Ci siamo incontrati e mi ha consegnato la macchina, ma non ha voluto vedere le foto insieme a me. Era interessato soltanto al gesto di continuare il lavoro. Ho visto le immagini solo più tardi, in albergo. Effettivamente c’erano delle fotografie bellissime, insieme ad altre sbagliate. Una o due sono nel polittico. Ci ho tenuto a raccontare questa storia per sottolineare l’importanza di questo incontro».
Quanto all’idea del polittico con cui viene restituita l’esperienza, è sempre legato a un concetto musicale e armonico. Non è altro che l’applicazione in fotografia dell’insegnamento che Biasiucci ha ricevuto dal regista teatrale Antonio Neiwiller: un teatro sperimentale basato su meccanismi di lunghi silenzi, concentrato sull’essenziale, sulle azioni libere e sulla loro continua reiterazione che introduce il cambiamento. «Quando comincio a confrontarmi con il soggetto inizia un vero e proprio rito – conclude il fotografo – Ritorno in maniera ossessiva sullo stesso soggetto, fino al punto che diventa sempre più scarno ed essenziale affinché, in qualche modo, si liberi da me. Anche nella speranza che gli altri possano trovare una parte di sé nel momento in cui lo osservano. Paradossalmente, le fotografie che considero più riuscite sono quelle che quando le guardo, anche in mostra, non sembra siano state scattate da me. Distanza? Sì, è come se avessi vissuto tutt’altro e quel momento sia diventato improvvisamente distante».