Sulla questione dei generi artistici Antonio Banfi ha riflettuto con un particolare e costante interesse. E nei suoi approfondimenti sull’argomento, egli si è dedicato in special modo al tema della “natura morta” sul quale si sofferma più volte e, sempre, con messe a punto e ricognizioni di rara finezza. Dino Formaggio ha sottolineato che “amava ritornarvi sopra nei suoi corsi di estetica” e, aggiunge, “per quanto mi è dato ricordare di una nostra conversazione, esso gli era apparso la prima volta negli anni pieni di luce di Berlino (1910-1911) e quasi certamente alla scuola di Simmel”. E, attendendo alle sue predilette ricerche di estetica, ancora nel correre dei suoi anni estremi, tra 1954 e 1955, Banfi stende certe sue Osservazioni sui generi artistici che restano inedite, affidate a quaranta foglietti manoscritti su carta da minuta del Senato della Repubblica, pubblicate postume, nel 1959, su “Società”. Dei generi, afferma Banfi, va rilevata l’importanza “sia per la creazione artistica, sia per la critica, sia per la storia”. Su questo presupposto invita allora a considerare i generi artistici ciascuno entro il quadro della sua propria tradizione così da appurare i requisiti del canone iconografico che se ne vien stabilendo. Sarà poi, per questa via, agevole ottenere un duplice risultato: mettere in evidenza tanto i caratteri permanenti di un genere, quanto segnalare l’originalità di un’opera innovativa che vi afferisca. Un metodo, argomenta Banfi, perseguito nella consapevolezza che solo “seguendo l’articolazione dinamica dell’arte e i suoi riflessi nella coscienza critica è possibile seguire concretamente e organicamente la vita dell’arte nella sua interna inesauribile dialetticità”. Nelle Osservazioni Banfi sceglie di verificare il suo metodo (“a scopo di chiarimento, e di esemplificazione”) su due generi assunti come esemplari: la natura morta e la poesia didascalica. Allo sviluppo storico (a partire dal Seicento) della natura morta Banfi aveva dedicato alcune pagine (pure esse restate inedite) nel 1946-1947 ove si legge che quel paradigma “isola uno spazio e vi costruisce un’architettura e una composizione di volumi che l’artista dispone liberamente, sì che i valori plastici insieme si creano e si risolvono nell’intreccio dei toni cromatici. La natura morta diviene così l’esercizio formale più elastico e più elegante e il genere dominante nell’età moderna dove appunto il maggior interesse si concentra sui valori formali”. Così come i “valori formali” concorrono a regolare cromatismi e a determinare volumetrie, allo stesso tempo istituiscono il tono spirituale che si attesta nel genere della natura morta. Intonazioni, movenze che sollecitano ad una recezione meditativa, ad una attitudine contemplativa tali da stabilire un contatto con quel ‘comporre’ che riproduce elementi di natura nella loro assolutezza. Li ‘istituisce’ senza altra contaminazione che non sia questa, appunto, d’una loro acquisizione formale. Un tale acquisire la natura nella sua pura forma vale collocarla in un àmbito altro, a sé, un lontano assegnato una volta per sempre. Là dove l’elaborazione prospettica non si fa transito e diviene piuttosto la rivelatrice di misteriosi impedimenti. Agiscono in sodalizio con la luce fissa che tiene il campo nella natura morta, come un’aria chiusa, a rendere inavvicinabili, intoccabili la dalia e la peonia, il violino e la mandola, la caraffa del vino e le pesche nella canestra. Scrive Banfi: “riprodurre al proprio interno questo senso della realtà nuda è una delle caratteristiche della natura morta. Morta in quanto vuota, in quanto non ci viene più incontro, fissata e chiusa in sé stessa. Nelle cose immerse nel silenzio, deserte dagli uomini, sembra destarsi una tacita vita segreta estranea, anzi ostile agli uomini, e la poeticità della natura morta sta proprio nel cogliere non la immagine fotografica, ma questa intima demonicità del reale”. In antiche cosmogonie e rappresentazioni della natura, l’elemento demonico prende attiva parte alla determinazione di un ‘universo sensibile’ da disporre o declinare nelle compatibilità del sovrasensibile, la iper-realtà che si alimenta del reale quando è allontanato (dis-tolto, dis-tratto) dalla percezione sensibile quotidiana.