Antonia, esordio di Ferdinando Cito Filomarino ci riporta parole e gesti di Antonia Pozzi, poeta che rivive tra pareti, vetrate e prati nella Milano degli anni Trenta, la città del regista, il suo «motore nascosto». Il film prende le distanze sia dai versi che dalla fisicità quasi avesse la certezza che la poesia possa sgretolarsi. Ma ecco poi afferrarla in un sollevare di braccia, in un passo di danza, in un disco appena posato sul piatto, nel sussurro percepito nel salone della sua abitazione di quella Milano «che nasce», impenetrabie come una gabbia. Nella società patriarcale del fascismo si sovrappone la supponenza del predominio degli intellettuali che a stento percepiscono le giovani donne. Produce Luca Guadagnino (come già i primi corti Diarchia e L’inganno), interpreta Linda Caridi diplomata alla Paolo Grassi a cui è stato concesso quel lieve tocco mediterraneo in più già in suo possesso. È l’unico film italiano in concorso, in programma stasera al prestigioso e maestoso festival di Karlovy Vary (3-11 luglio). Stazione termale mitteleuropea ricca di hotel barocchi e art nouveau che un tempo si alternava con Mosca nel presentare tutta la produzione cinematografica dei paesi comunisti, quest’anno oltre agli esordi dei giovani cineasti dell’est e a un ricco programma internazionale, offre al pubblico anche star come Richard Gere o Harvey Keitel. Parliamo con Ferdinando Cito Filomarino del suo film.
Troviamo che ci sia stata una particolare attenzione a scegliere il tuo film
La decisione di andare a Karlovy Vary è dovuta al fatto che il direttore Karel Och ha amato moltissimo il film e ci ha scritto personalmente una mail in cui ci invitava immediatamente al concorso (mentre in genere gli altri direttori di festival in genere tergiversano, dicono di dover vedere, capire). Lui ha scritto con grande entusiasmo: mi piace, lo voglio in concorso. Da uno che dirige un festival e reagisce così non c’è altro posto migliore dove andare, è la casa ideale per il film.
È difficile mettere in scena la poesia. Come hai organizzato questa traposizione, questa traduzione? Un po’ come la scena dell’Odissea recitata in classe che si vede nel film.
La prima volta il professore recita in greco e poi si sente un po’ di traduzione in italiano. Questa idea rispetto alla poesia è interessante perché nella sua immediatezza rimane questa cifra e in seguito quello che uno percepisce nella traduzione. Il punto di partenza, l’idea del film è fare il ritratto di un’artista e della sua arte, non tanto fare il ritratto di Antonia Pozzi, ma fare un ritratto di Antonia Pozzi e della sua poesia. Anche perché le poesie di Antonia Pozzi, come molte altre poesie – ma la sua lo è esplicitamente – è legata e fusa in mnodo intrinseco alla sua vita, alla quotidianità, alla relazione con le persone, ma anche al modo in cui si muovono le foglie, ogni singola cosa ed è tutto legato insieme. Questa è la forza e la bellezza della sua poesia per cui nel concepire un ritratto su di lei e sulla sua arte fuse insieme, la prima cosa è stata assorbire tutta insieme l’essenza della sua poesia, anche attraverso le sue lettere e le fotografie da lei scattate, non soltanto la lettura delle poesie. E una volta percepito il mondo attraverso i suoi occhi, solo da lì partire a concepire le scene come parte dell’universo di Antonia Pozzi dal suo punto di vista, non obiettivo ma profondamente soggettivo. Che inevitabilmente sarebbe poi il mio sguardo, il modo in cui io interpreto il suo sguardo.
È come una metamorfosi, come se tu avessi inglobato la sua personalità.
La poesia di Antonia nei dieci anni della sua attività si trasforma molto velocemente e alla fine diventa un’altra cosa. Anche un po’ il modo come lei è presente nel corpo del film e il film stesso cambia corpo per come si esprime nel corso del passare questi dieci anni. È un mio tentativo, va di pari passo con lo sviluppo della sua poesia e della sua vita. Il modo in cui vive le cose, il suo entusiasmo, così cambia l’universo poetico intorno a lei. Il mio tentativo era di non separare la vita e la poesia ma di unirle in un unico flusso.
Nelle scene si percepisce la sua presenza fantasmatica, come evocata.
Lei stessa viveva in questa dimensione dell’evocazione, come nella poesia Convegno che c’è nel film quando lei è di fronte a Remo Cantoni, perché a lui è dedicata: mentre lui la guarda in viso e lei percepisce uno sguardo di amore, non riesce neanche a vivere il presente di quello che sta vivendo, ma già pensa a quando nel futuro ricorderà questo momento in cui lui la guardava per cui ha questo inevitabile trasporto verso l’astrazione di se stessa.
È l’atteggiamento comune agli intellettuali, più inclini a elaborare che vivere.
Ma i poeti hanno un trasporto naturale per fare questo sia in chiave di emozione che di filosofia, anche formale e linguistica per concretizzare poi tutto questo in una pagina di carta che è la parte che mi affascina di più.
Resta il mistero della sua morte. Non credo che tu ti sia voluto addentrare in questo momento della sua vita.
Mi sono voluto addentrare invece, ma non credo che i suicidi siano riducibili. Penso che alla domanda: perché si è suicidata Antonia Pozzi – ma è applicabile a qualsiasi altro suicidio – sia ingiusto rispondere con un’unica frase. Io ho studiato il suo suicidio in particolare, ma ne ho studiato anche altri. Nel suo caso, di sicuro da un punto di vista clinico e psicanalitico non era una depressa. Era una persona sana estremamente sensibile. È stato un confluire di tanti, tanti elementi che hanno coinciso. E lei comunque un pensiero sulla morte, una riflessione su questo argomento se lo portava dietro da anni, ma proprio in quei mesi tante cose hanno coinciso che l’hanno portata a prendere questa decisione. Non c’è chiarezza, c’è comunque un’aura di mistero e di ambiguità in una persona che decide di uccidersi. E così giovane. Oltre al fatto scientifico che mancano molte lettere che il padre ha bruciato. Con le poesie suo padre è stato ugualmente violento, ma meno definitivo. Lui stesso, bisogna riconoscerlo, ha pubblicato le poesie per la prima volta, anche se in edizione privata, però le ha modificate a suo piacimento, ha «censurato» le dediche e anche alcune delle poesie che non gli sembravano decenti dal suo punto di vista. Voleva apparire religioso, perbene agli occhi di una certa società milanese di cui faceva parte. Però grazie a studi e a suor Onorina Dino che aveva l’archivio Pozzi molte cose sono state salvate e ripristinate. Le era stato affidato dalla madre di Antonia, Lina Cavagna che era andata dalle suore del Preziosissimo sangue quando era rimasta vedova. Si trattava di lettere, quaderni e album di tremila fotografie, non tutte scattate da lei, anche foto di famiglia. Onorina Dino e altri nel corso degli anni hanno fatto investigazioni vere e proprie su questi materiali, come scoprire pagine segrete incollate tra loro a celarne altre.
La poca considerazione, il paternalismo con cui era trattata non le aveva forse provocato un certo disgusto? come fosse già stata cancellata?
Fin da quando aveva 12 anni viveva nel regime fascista. È entrata nell’età della ragione sotto un regime e ha imparato che la realtà funzionava in un certo modo, che era un modo molto alterato rispetto alla realtà che conosciamo noi, perché il fascismo «ti entrava in casa» come si dice. Lei non è che percepisse un rifiuto, ma un’«impossibilità». Sentiva che quello che lei faceva era semplicemente incompatibile, che non poteva esistere nel presente. Ed è per questo che uno arriva ad uccidersi, perché un conto è il rifiuto, un conto è sentire che non c’è posto per te.
Anche Montale la loda, ma con un certo paternalismo
Antonia era nella generazione degli studenti che seguivano Banfi, tutti diventati dei poeti, dei filosofi, persone importanti, lei era l’unica donna e io ho percepito leggendo degli incroci di lettere, come elementi di resistenza nei suoi confronti il fatto che lei veniva da una buona famiglia, era ricca, era donna. Ma non vorrei ridurre a questo il suo senso di impossibilità, penso che sia più profondo. Il genere sessuale penso sia solo una parte del discorso.
Cosa ti fa somigliare più ad Antonia?
Forse la fascinazione verso l’ascesa in montagna. Le vie che abbiamo ripreso le conosco, anche io arrampico. Per me è poesia anche vedere il famoso scalatore Hervé Barmasse quando si arrampica sulla roccia. Nel film lo vedi per pochissimo, ma è come una danza. Mi aveva ispirato Emilio Comici che era una grande guida e alpinista dell’epoca che conosceva Antonia Pozzi, sono usciti anche insieme in montagna, alla Grignetta vicino a Pasturo dove la famiglia Pozzi aveva una casa, quella che lei considerava più sua. Dalla cima di quella montagna dove abbiamo girato si vede Milano, non ho potuto riprendere questo per una serie di ragioni, ma del resto per Antonia l’importante era l’ascesa e il silenzio e rimanere da soli con la natura.