Delle molte isole che compaiono sulla faccia della terra bisogna avere sguardo per poterne parlare. Esserci immersi o averne abitata una, almeno una volta. Per esempio dal Giappone alla Sardegna, dall’Islanda alla Corsica o a Rodi, l’occhio è di chi sa cosa significhi essere in una esposizione, con le differenze materiali per ciascun contesto, in un’isola non accade ciò che invece si configura nel Continente che – come suggerisce il termine – contiene. Da una parte ogni strada ha un epilogo marino, nel continente no. Negli arcipelaghi non sempre.

LO SA BENE Antonella Anedda che ha a cuore le proprie origini sarde su cui è tornata spesso, rendendole in versi. Apertura e deserto, profondità della lingua e invenzione.
«Vieni spazio, consolaci del tempo». È un invito ad aprire gli occhi dinanzi all’atlante di ciò che permane, l’ultimo libro della poeta romana, Geografie (Garzanti, pp. 168, euro 16), se non fosse che a reclamarne l’esistenza, là dove è proprio lo spazio a ignorarci, «superflui», si rischierebbe di non segnalarne la maestosità. Liberarsi dall’angoscia cumulativa di un tempo che, in particolare da un anno a questa parte, ha schiacciato la propria spirale fino a farci dimenticare che il mondo esiste nonostante tutto, e i corpi anch’essi premendo su spiazzi e vie disabitate. Ascoltano, si ammalano, colano a picco, possiedono dei nomi e delle storie – i corpi – e sentono, assediati di solitudine prolungata in quanto condizione umanamente impraticabile.

CAPITERÀ di trovare la Mongolia e la Finlandia, l’equinozio e il vento, le cornacchie e i lupi, in forma di inventario tra prosa breve e poesia di luoghi ed esperienze, Geografie convoca alcuni temi centrali della ricerca di Anedda qui in relazione anche con l’attuale pandemia; fin dall’incipit la scelta va infatti a una parola netta: «Considera», scrive, che è insieme vicinanza alle costellazioni e significanza di un esame più approfondito il cui esito porta a un «Ricominciamo». Le descrizioni circolari di Anedda si popolano di pause, stagioni, buchi e angoli rosselliani, meteorologie del vivere quotidiano, soprattutto prospettive il cui contrappunto è segnato da geometrie, termini che incrociamo in altri suoi lavori, sia poetici che saggistici – basterebbe citare La vita dei dettagli (2009). Lo spazio diventa sostanza cui afferiscono modi, nudità, si applicano misure, è insieme attraversamento di chi lo ha calpestato prima di noi. Con tutto il corpo, come succede nel flamenco che si balla sul posto, battendo pesantemente i piedi, in quel passare che è stato prima uno stare, Anedda decifra la traccia di ere geologiche, vulcani e inondazioni, confini e frontiere.

A MITILENE la luna è simile a come ce l’ha descritta Saffo, e a domandare all’amore ciò che resta, «lo spazio risponderebbe: poco»; così in Il catalogo della gioia (2003), una delle passate sue ricognizioni capaci di restituire per prime la scomposizione di cosa sia «isola» e di cosa sia tassonomia affettiva, lo spazio è fin qui sottrazione. Anche in Geografie torna di sfondo la mancanza umbratile, «non una notte oscura, ma un errare senza grandezza», chiosava nella parte finale di Nomi distanti (1998, ripubblicato pochi mesi fa da Aragno, in cui figurano sue bellissime traduzioni di rilevanti e amati poeti e in cui, non a caso, la nuova postfazione di Andrea Cortellessa, punta sulla questione potente dello spazio).

Se in Residenze invernali (1992) ci aveva insegnato come dovrebbero dormire le anime e in Salva con nome (2012) aveva dato voce alle intermittenze di anfratti domestici e mnemonici, in Notti di pace occidentale (1999) è il corpo che per primo ha perimetro di realtà – una scure, dopo aver visto «dal buio come dal più radioso dei balconi». E questo corpo sembra diffondersi dappertutto, farsi minuto, orante e stupefatto di silenzio. La cucitura di zone invisibili serve ancora di più allora in questo presente, dove le parole accorrono al filo dei pensieri (da segnalare la conversazione insieme a Elisa Biagini e Riccardo Donati, appena pubblicata da Chiarelettere, Poesia come ossigeno).

Per seguire la dismisura delle cose, si annida dunque «un sogno infantile di teorema,/ un innesto di mondo su un segmento di radice»; lo dice nella sua penultima silloge Historiae (2018) e somiglia alla «moderazione» di cui rammenta in Geografie, una forma di «grandezza del piccolo», come qualcosa che non può essere vuotato bensì riempito, «modus significa anche ritmo».

DOBBIAMO, ad Antonella Anedda, una laboriosa parola, disarmata come lo è l’eleganza del riserbo, dote rara nel panorama poetico contemporaneo; per questo ha potuto sostare sulla meraviglia sorgiva della lingua, ascoltando la crepa minuscola interna alla physis che rende fragili nel dolore, svelando la realtà fenomenica nel suo aspetto mortale e autoptico. E che fa di chi scrive poesie l’argonauta in cerca di qualcosa di vivente, ancora capace di splendere in mezzo a tanto sgomento.