Anton Giulio Bragaglia in un fotoritratto di sconosciuto, del 1919

 

Uno dei lasciti eccezionali affidati al prosieguo della Storia dalla svolta avanguardista di primo Novecento è certo il passaggio – in termini sociologici e nel quadro di una cronaca delle istituzioni artistiche – dall’idea familiare di «confraternita» (basata sulle dinamiche dei legami spirituali e su un’idea innatistica di genio) a quella, corrente e democratica, di «movimento» (incardinata piuttosto a una solidarietà di rete e a una prospettiva ‘apostolica’, di evangelizzazione).
È insomma la linea che dalle notti sul lago di Lemano e dal monastero di Sant’Isidoro porta alle riunioni in rue de Grenelle, mentre un’evoluzione analoga lega in fondo le accademie di fine Cinquecento all’internazionalismo futurista o cubista.
Tale tendenza – fra le molte chiavi ermeneutiche applicabili alla nascita della Modernità – giustifica appieno l’inclusione di Anton Giulio Bragaglia, al fianco dei fratelli Carlo Ludovico e Arturo, nei ranghi militanti dei profeti del secolo ventesimo, promotori di credo attuali, di rivoluzioni palingenetiche; e anzi, proprio in un’ottica siffatta, è assai opportuno che la mostra Anton Giulio Bragaglia L’archivio di un visionario, aperta alla Galleria nazionale d’arte moderna ancora fino al 3 ottobre, intenda celebrarne il ruolo nevralgico, ricollocandolo al centro di un network amplissimo di relazioni radicate a Roma ma rivolte oltre le Alpi verso Francia e Germania.
Pur se ancora ai margini della bibliografia generalista consacrata alla stagione delle avanguardie (nonostante gli interessi pionieristici di Mario Verdone), Bragaglia è stato infatti figura di rilievo per quel milieu intellettuale – e non solo nel confronto col panorama italico – nel quale ha rivestito ruoli numerosi e rilevanti, spesso secondo interessi simultanei e in accordo con un’agenda quant’altre mai gremita. Lungo un arco di vita articolato, l’uomo fu (in ordine sparso): fra i seguaci precocissimi degli appelli marinettiani; mercante e collezionista d’eccezione per l’Urbe infusa di dannunzianesimo ma elettrizzata dal clima belligerante della guerra mondiale; regista precursore nello sperimentare in fotografia e al cinema linguaggi desunti dallo spericolato caleidoscopio della pittura novecentesca; impresario teatrale, drammaturgo e metteur en scène, in dialogo con la ficcante rivoluzione europea degli Antoine, dei Copeau, dei Lugné-Poe, ma anche con l’inedita scrittura proposta sul palco da Milano alla capitale, fra spettacoli sintetici, serate rumoriste e balletti meccanici; editore di giornali e studioso erudito, curioso e onnivoro, interessato tanto alla commedia dell’arte quanto alle tecniche dello spionaggio, nella continua reinvenzione di un poliedrico profilo autoriale; un «archeologo futurista», per ricorrere alla formula da lui stesso coniata con l’intento di descrivere la propria parabola alla luce di un anacronismo manifesto, frutto innanzitutto di una colta ironia e di un’appassionata apertura al nuovo.
In considerazione di una personalità tanto sfaccettata, non impressionano i rapporti stretti nel corso di una carriera longeva, sopravvissuta a complesse crisi politiche e a frangenti economici altrettanto duri. Da Massimo Bontempelli a Bertolt Brecht, da Giacomo Balla ad Anna Magnani, da Hans Richter a Luigi Pirandello, da Max Reinhardt a Ramón Gómez de la Serna: sono solo alcuni dei nomi di un universo che risulta difficile da numerare, composto di colleghi e corrispondenti, di amici e di avversari, di collaboratori e interlocutori; un coro alimentato negli anni sia dalla funzione di agit-prop presto assunta da Bragaglia in ambito artistico e culturale, sia dalla mappa espansa dei luoghi animati dal suo fiuto d’imprenditore, imbastita attorno alla galleria di via Condotti, allo studio fotografico fondato coi fratelli, al teatro in via degli Avignonesi – gli Indipendenti – e alla seconda sala, diretta invece in seno alla Confederazione fascista dei professionisti dello spettacolo (e nota come Teatro delle Arti).
Tanto più opportuno appare allora che, grazie all’acquisizione dell’archivio di Anton Giulio (perfezionatasi nel gennaio del 2019 con una formula mista fra donazione e comodato), la GNAM presenti un allestimento, curato da Claudia Palma, in grado di declinare risposte possibili al problema di un siffatto censimento: la mostra classifica infatti i risultati impressionanti di una campagna di digitalizzazione tempestivamente avviata (solo per la corrispondenza, circa 15.000 unità…), anticipando la portata cospicua del patrimonio documentario destinato al futuro scrutinio degli studiosi, fra foto di scena, bozzetti, press book, volumi, prove grafiche, locandine e un repertorio di ephemera della più ampia varietà immaginabile.
Il percorso è dunque, innanzitutto, lo specchio di un work in progress, contingenza che giustifica qualche ermetismo negli apparati esplicativi. Tuttavia la ricchezza di quanto già catalogato – disposto in una sequenza assieme cronologica e tematica, intesa per aiutare il visitatore a orientarsi nella massa disomogenea, entusiasmante di opere e di carte – propone una rassegna di grande fascino, sufficiente a tratteggiare l’abbozzo di un ritratto attraverso materiali di prima mano stratificatisi durante un’intera esistenza nell’ordine casalingo di scatole e faldoni.
Basterebbe ripercorrere la prima stanza, quella dedicata agli Indipendenti, in mano il bel tomo consacrato nel 1984 alla medesima esperienza, per capire quanto l’archivio getti nuova luce sull’oeuvre di Bragaglia, sulla sua indefessa attività di creatore e di organizzatore. Mentre gli autori del libro – Alberti, Bevere e Di Giulio – dovettero collazionare, fra riviste d’epoca e ritagli vari, una randomica iconografia delle stagioni di quella sala celeberrima, la GNAM può presentare un numero consistente di lastre fotografiche («stampate» per l’occasione e appese a parete), offrendo testimonianza sistematica dei singoli spettacoli, delle scenografie, dei costumi e delle scelte di regia applicate a ciascun copione; un attestato del genio promozionale del regista ma anche una prova sicura della consapevolezza tempestiva da questi nutrita circa la propria ‘funzione’ nel rapporto con l’arena italiana e con il dibattito internazionale.
Solo per ribadire l’importanza degli inediti, pure in riferimento a momenti meno noti: lo scandaglio condotto dalla GNAM ha evidenziato novità sorprendenti, come ad esempio i contatti amichevoli intercorsi negli anni cinquanta fra il regista e Rossellini per la stesura del copione di un film su Pulcinella, riflesso diretto dell’interesse di Bragaglia per le maschere e attestato storico del prestigio che continuava a essergli riconosciuti perfino negli anni amari del secondo dopoguerra.
D’altronde, esulando dalla miniera straordinaria del fondo appena acquisito, i curatori hanno voluto riservare un’ultima sorpresa al pubblico invitato in galleria: nella quarta sezione è cioè possibile rivedere la pellicola Thaïs, girata nel 1916 per la Novissima Film con il contributo siglato di Enrico Prampolini. Un gioiello, di cui si conosce un’unica copia incompleta (conservata alla Cinémathèque française e digitalizzata per Roma), che è possibile gustare con agio, in un loop ipnotico, accanto alla non meno raffinata locandina, manifesto – all’uscita del dramma in celluloide – di un tanto squisito labirinto di immagini.