«Se m’ammazzavano, c’erano i funerali, magari col tricolore. Poi piano piano i riflettori si sarebbero spenti. E invece sono vivo, la mafia non ce l’ha fatta. Ora chi mi voleva morto si trova a fare i conti con lo Stato, che sta reagendo in modo forte e deciso». Giuseppe Antoci, sfuggito all’attentato grazie alla pronta reazione degli agenti di scorta che hanno risposto al fuoco dei killer, si sta recando a un appuntamento per parlare di legalità. All’alba di ieri la polizia ha arrestato 23 presunti appartenenti ai clan dei tortoriciani, che agiscono proprio nell’area del Parco dei Nebrodi.

Tredici giorni fa l’agguato, ora gli arresti

Lo Stato c’è, va avanti senza indugi. Questo è un segnale fortissimo, ma non ci fermiamo, non indietreggeremo di un passo.

Serviva un agguato perché ci si rendesse conto che in questa zona la mafia è viva e potente?

Di operazioni antimafia ce ne sono state tante. Ma dopo quel giorno qualcosa è cambiato. Le Procure di Messina e Reggio Calabria stanno lavorando senza sosta, in sinergia. Cosa nostra aveva scelto di fare quell’attentato che alla ‘ndrangheta piaceva tanto per tutelare i propri affari, tanti soldi puliti come quelli dell’Ue che dà contributi al pascolo.

Si parla di decine di milioni di euro finiti nelle tasche dei clan, avete delle stime?

Le assicuro che non si tratta di milioni, ma di miliardi. Tanti e in tanti anni, almeno 5 miliardi è il giro d’affari. E col protocollo firmato con la Prefettura di Messina gli abbiamo rotto il giocattolo. Siamo appena all’inizio. La Regione Calabria ha deciso di bloccare la vendita dei beni demaniali che finivano nella disponibilità delle ndrine, certo che le mafie vanno in fibrillazione. Il ministro Martina vuol adottare il protocollo a livello nazionale, perché è ovvio che gli affari della mafia sui fondi Ue riguardano non solo la Sicilia, ma la Calabria, la Campania e il resto del Paese.

Ritiene che ci sia stata una falla nel sistema di erogazione dei contributi Ue?

La tecnica mafiosa era perfetta. Un comune o un ente pubblicava un bando? Bene, i clan costituivano società e ci mettevano dentro i mafiosi. Così non si presentava nessun altro: è chiaro che in molti in quest’area dei Nebrodi conoscono nomi e volti dei componenti dei clan. Rimasti i soli concorrenti, presentavano le autocertificazioni. E il gioco è fatto. A fronte di 30 euro d’investimento a ettaro ottenevano 3mila euro di contributi Ue a ettaro.

Ma se sui Nebrodi molti conoscono nomi e volti perché non denunciava nessuno?

Sindaci e amministratori non sono eroi, non bisogna condannare nessuno. Nelle campagne e nelle comunità, dove lo Stato è meno presente per tante ragioni, regnava la paura.

Poi arriva il protocollo sulle interdittive antimafia…

Mi viene a trovare il sindaco di Troina, Fabio Venezia. Mi racconta che nel suo comune i terreni sono in mano alla mafia e in lui vedo tanta solitudine. Mi presenta il commissario di polizia Daniele Manganaro. E decidiamo di metterci al lavoro.

Come?

Andiamo dal Prefetto di Messina, gli raccontiamo il business della mafia sui Nebrodi. Gli sottopongo la bozza di protocollo: stop alle autocertificazioni, serve la certificazione antimafia. Gli chiedo però una cortesia, di inserire tra i comuni anche Troina, nonostante l’ente appartenga a un’altra provincia. La richiesta viene accolta, grazie anche al prefetto di Enna. Ma non è tutto…

Cosa?

L’elemento determinante è il governatore Crocetta. Con un atto coraggioso, anche lui firma il protocollo e chiede ai suoi assessori Nino Caleca e Maurizio Croce di firmare. Così il protocollo viene esteso agli enti regionali. Mi risulta che i sindaci adesso a ogni bando allegano il protocollo. Possiamo dire che con questo documento abbiamo liberato i sindaci dalla paura, non possiamo certo pensare agli amministratori come a dei garibaldini.

Ha ricevuto tanti messaggi e attestati di stima dopo l’agguato?

Centinaia. Ma mi ha colpito una mail di una signora di Brescia. Mi ha scritto che dopo aver appreso dell’attentato non ha mandato la figlia a scuola. L’ha voluta con sé a casa, per parlare di quanto mi era accaduto e ‘per farle respirare il profumo della speranza’.