Draghi, cavalieri, spade incantate, giganti. Ma anche omicidi, stupri, repentine detronizzazioni e torture. Game of Thrones, la serie di punta della HBO tratta dai romanzi dell’autore americano George R. R. Martin, fin dal 2010 della sua prima stagione ha conquistato un numero altissimo di fan in tutto il mondo. Un successo di pubblico che dura ormai da cinque anni, ed è stato consacrato da una moltitudine di premi. Il trionfo vero e proprio è però stato sancito la notte degli Emmy Awards due giorni fa, quando Game of Thrones ha fatto razzia di tutti i riconoscimenti più importanti: miglior serie drammatica, miglior regia a David Nutter, miglior sceneggiatura a David Benioff e D.B. Wise e miglior attore non protagonista a Peter Dinklage, che per il suo ruolo nei panni di Tyrion Lannister aveva anche già vinto un Golden Globe nel 2011.

 
Il fantasy è da sempre un genere che può contare su uno zoccolo duro di appassionati, ma la fortuna dell’epopea ideata da George R.R. Martin sta nella reinterpretazione delle classiche ambientazioni e tematiche fantasy nell’ottica di quella crudeltà e antieroismo che caratterizza tutta la nuova ondata televisiva degli ultimi anni, in cui si privilegia di gran lunga l’ambiguità ed i personaggi negativi rispetto alle storie edificanti.

 
La vicenda, ispirata alla lontana alla celebre Guerra delle due rose che oppose nella seconda metà del Quattrocento le dinastie Lancaster e York per la conquista del trono d’Inghilterra, trabocca infatti di re e regine crudeli, giochi di potere, tradimenti e lotte sanguinose finalizzate all’ascesa al trono di spade. Ma ci sono anche gli elementi più propriamente fantastici: i draghi appunto, o gli stregoni e perfino degli zombi sui generis che incombono sul regno degli esseri umani, tutto elaborato da una scrittura che scava in profondità nei personaggi, le loro motivazioni e le forze interne ed esterne che li muovono.

 
Più di ogni cosa, Game of Thrones gioca infatti con l’aggiunta al genere consolidato di una «realpolitik» tardo medievale o anche da Impero Romano che le dia una connotazione «realista». Come nella storia dell’aspirante regina Daenerys Targaryen, le cui ambizioni di sovrana illuminata e umanista si scontrano con la difficoltà di governare grandi masse senza un po’ di panem, circenses e spargimenti di sangue esemplari. L’ultraviolenza che la fa da padrona è finalizzata a questa visione del genere, anche se capita che sfiori una gratuità che ha più a che fare con la moda – se è sanguinolento è cool – che con la profondità .

 
Colpisce infatti che sia proprio la quinta stagione a conquistare tutti i premi, dato che è quella in cui il gioco al rialzo – dei colpi di scena, della brutalità – si è fatto eccessivo, in cui come di consueto il troppo maschera il poco, l’affievolirsi dello slancio iniziale.