La scultura come la musica. Può sembrare un paradosso, ma per sir Anthony Caro quei due linguaggi non erano poi così distanti. Nonostante i suoi fossero «oggetti» pesanti, realizzati con materiali industriali (acciaio soprattutto), colorati con toni brillanti e appoggiati a terra, destituiti da ogni tentazione di monumentalità, custodivano al loro interno la leggerezza e la volatilità del pentagramma. Erano più vicini ai mobiles di Alexander Calder che alle strutture geometriche dei cugini minimalisti americani, troppo severamente radicate nei loro luoghi di appartenenza.

«La scultura può essere qualsiasi cosa», aveva detto l’inglese Caro in diverse occasioni, interpellato sull’essenza di quell’arte difficile che ostinatamente aveva perseguito fin da studente. Una definizione semplice la sua, che però rivoluzionò un linguaggio plastico codificato nei secoli, ancorandolo alle esperienze delle avanguardie del primo Novecento e lanciandolo saldamente nella seconda parte del XX secolo.

Anthony Caro, il grande scultore inglese che «addomesticò» la materia bruta rendendola partecipe dei suoi stati d’animo, è morto ieri all’età di 89 anni per un attacco di cuore. Poco tempo fa, aveva annunciato al mondo intero che avrebbe continuato a lavorare fino a cent’anni. Sarebbe stato il suo modo per arginare lo «shock della vecchiaia» e anche la via da percorrere per combattere gli assalti della noia con la quale, spesso, le persone anziane sono costrette a convivere.

Proprio in questi giorni si sta consumando, a Venezia, presso il museo Correr, il finissage della sua mostra, una personale rigorosa e suggestiva, fra le più belle esposizioni viste in Laguna, a ridosso della Biennale. Vale la pena non perdere questa rassegna, a cura di Gary Tinterow e con la direzione scientifica di Gabriella Belli, visitabile fino a domenica prossima (ma chissà se ora verrà prorogata).

Nato nel 1924 a New Maden, nella contea inglese del Surrey, Anthony Caro arrivò presto alla scultura: già a quindici anni passava le sue estati a modellare la creta, sotto lo sguardo benevolo di una guida d’eccezione, lo scultore Charles Wheeler. I genitori tentarono con vari stratagemmi di fargli abbandonare quell’eccentrica passione; lo indirizzarono verso gli studi di architettura e ingegneria, ottenendo in cambio, nel 1942, la sua prima opera: una figuretta di pensatore che rinverdiva, in modo ironico, la posa (non le fattezze e gli abiti) dell’assorto signore modellato da Rodin. Alla fine, capitolarono e suo padre lo avvertì: «Se vuoi essere un artista, almeno evita il dilettantismo».

Il riconoscimento della sua inclinazione fu sottolineato dall’iscrizione alla Royal Academy School di Londra. Qui, oltre a stringere un’amicizia duratura con lo studente Frank Martin, Caro incontrò anche la sua compagna per la vita, la pittrice Sheila Girling con cui si allenò a costruire un importante sodalizio affettivo e professionale. Erano i primissimi anni Cinquanta e la sua strada era già segnata, ma la svolta avvenne nello studio di Henry Moore. Caro divenne suo assistente e si infervorò al punto di voler traslocare: il suo posto «esistenziale» era vicino al laboratorio del maestro. Nella biblioteca di Moore, settimana dopo settimana, riempiva le sue lacune nella storia dell’arte e quando lasciava lo studio, vagabondava per le gallerie di Londra. Fu l’amico Martin, in seguito, a trasformarlo in docente: alla St Martin School, sir Anthony formò, con le sue parole e le sue mani, giovani entusiasti che mantennero tutte le promesse: Richard Long, Richard Deacon, Barry Flanagan, Gilbert&George.

Piano piano, la sua scultura andava mutando, facendosi sempre più astratta. Da parte sua, però, Caro non riusciva a dimenticare Picasso e i collage cubisti. Fra i suoi amori confessati, inoltre, rimanevano gli objets trouvés del Dadaismo. Un sostrato emozionale lo trascinava ancora verso gli umori del secolo passato, «una scultura deve mostrare ciò che c’è dentro al corpo, non il corpo in sé», andava affermando nel presentare le sue figure di donne e animali.

Iniziarono i viaggi e fu la volta anche dell’Italia, con Venezia e la Biennale del 1958 a guidare le sue scoperte (vi tornerà poi nel ’66 in rappresentanza del padiglione britannico). Prima, era stata la galleria del Naviglio a Milano a ospitare venti sue opere (1956). A pagare e collezionare quelle sculture c’era sempre il patriarca Henry Moore. La fine di quel decennio segnò anche l’interruzione di una consuetudine antichissima e di lunga tradizione per gli scultori: Caro abolì il basamento. Niente più piedistallo, l’osservatore poteva girare intorno all’opera, sentirsi fisicamente «dentro» un progetto, non aver timore di toccare l’opera.
Il percorso che lo avrebbe condotto verso l’astrazione totale era ancora tortuoso e accidentato. In mezzo, ci furono alcuni eventi sostanziali: un viaggio in America, l’ammirazione per il pittore Kenneth Noland e la conoscenza di Clement Greenberg, l’influente critico statunitense che aveva «promosso» Jackson Pollock. Caro fece tesoro dei suoi consigli, ma rimase fedele ad un principio cromatico che lasciava risuonare gli echi di Matisse, Picasso, Kandinskij. Le sue radici non persero mai il dna europeo né l’alfabeto delle avanguardie.

Quando però Caro giunse alla non figurazione assoluta, dovette rivedere tutti i canoni del suo insegnamento e aprire addirittura un laboratorio di saldatura alla St. Martin’s School. I primi pezzi del nuovo corso vennero realizzati nel suo garage, poi l’attività andò espandendosi in enormi capannoni a Londra e nello stato di New York, con stuoli di assistenti al seguito. Caro elesse l’acciaio a suo materiale prediletto, asserendo che si forgiava facilmente, ma nel tempo non disdegnò il legno, la carta, l’argilla, il bronzo. Con la scultura Early One Morning (1962), una pimpante struttura rossa che cancellava l’idea del volume e dela solidità, fece storcere il naso a più di un visitatore della Whitechapel di Londra. I critici, invece, osannarono quella nuova sintassi dello spazio.

Convintissimo che la scultura non dovesse essere considerata un’arte marginale, negli anni che seguirono Anthony Caro incoraggiò una rete di collaborazioni con famosi architetti, come Frank Gehry, Norman Foster e Tadao Ando, inventando soluzioni ardite e creando giochi plastici inattesi. «Ogni generazione deve avere il coraggio di mandare al diavolo i vecchi concetti», era il suo motto.