Giustamente fiera del proprio traguardo, ventesima edizione, New Conversations/Vicenza Jazz non sembra avere fatto molto caso, mettendo in cartellone il quartetto di Anthony Braxton, al cinquantesimo compleanno della AACM, Association for the Advancement of Creative Musicians, nata a Chicago proprio nel maggio del 1965. Con il concerto del sassofonista, Vicenza ha addirittura centrato in pieno l’anniversario: la fatidica riunione in cui fu costituita l’”Associazione per la promozione dei musicisti creativi” e nominato presidente uno dei promotori dell’iniziativa, il pianista Muhal Richard Abrams, si era tenuta esattamente mezzo secolo prima. Abbiamo il sospetto che nemmeno Braxton, a cui fra l’altro le celebrazioni non vanno particolarmente a genio, abbia notato la coincidenza, e del resto non può che fare onore a Vicenza Jazz che il festival abbia ritenuto di invitare Braxton a prescindere dall’occasione, così come due anni fa aveva proposto un altro dei grandi dell’AACM, Henry Threadgill.

Curioso piuttosto che introducendo il concerto di Braxton il direttore artistico della manifestazione, Riccardo Brazzale, abbia voluto un po’ scherzosamente giustificarsi di una scelta non proprio all’acqua di rose, presentandola anche come una sorta di controbilanciamento di una edizione del ventennale a suo stesso dire piuttosto “leggera”: da un lato Braxton rappresenta uno dei gradi fatti dell’arte e della cultura dei nostri giorni, che dovrebbe essere solo motivo di orgoglio far ascoltare, senza bisogno di invocare attenuanti; dall’altra, New Conversations è un festival che richiamandosi nell’intestazione al jazz, offre un programma che rispetto al jazz è per lo meno pertinente – e con i tempi che corrono non è poco – e se oltre a tutto ogni anno ci propone persino un Threadgill o un Braxton, di Vicenza Jazz non ci si deve certo lamentare più di tanto.

Alla riunione di quel sabato 15 maggio 1965 Braxton, militare in Corea, non c’era. Ma entra nell’AACM appena tornato, nel ’66, alla metà del ’67 debutta in studio di incisione per un cruciale album di Richard Abrams, e in breve emerge come una delle figure di punta dell’avanguardia chicagoana. Negli anni immediatamente successivi alla fondazone dell’AACM alcuni dei suoi musicisti con grande vigore pongono le basi di un’estetica che supera in avanti il free jazz: l’estetica sviluppata in seno all’AACM si affermerà così come una delle tendenze più audaci e caratterizzanti degli anni settanta. L’importanza dell’AACM va però ben oltre il ruolo che ha svolto nel primo quindicennio. Quasi tutti i protagonisti decisivi della prima ora dell’AACM sono per fortuna ancora vivi, e se facciamo mente locale a chi sono oggi in ultima analisi le figure cruciali della ricerca di ambito jazzistico – e nella musica dei nostri giorni in generale – diverse figure ineludibili le troviamo proprio fra loro, bastino i nomi di Roscoe Mitchell, Wadada Leo Smith e appunto Braxton, sulla breccia da cinquant’anni, a cui va aggiunto quello di Henry Threadgill, emerso un po’ più tardi.

L’importanza dell’AACM e del magistero di Muhal Richard Abrams è consistita nel dare loro non solo l’imput di una nuova prospettiva estetica, ma anche una consapevolezza di musicisti d’avanguardia, il senso di una responsabilità e di una integrità artistica che li ha portati a condurre avanti in maniera inesausta la loro esplorazione, e, benché non più giovani, ma con lo stesso entusiasmo di cinquant’anni fa, ad essere protagonisti ancora oggi di esperienze musicali fra le più innovative e appassionanti. Il lavoro in quartetto è da diversi anni una delle direttrici principali della enorme e articolata produzione di Braxton. Qui con i fidati Taylor Ho Bynum, Ingrid Laubrock e Mary Halvorson, la dimensione è di camerismo informale, con partiture e momenti di raccordo preordinati, ma che la componente di improvvisazione e interplay estemporaneo, assieme ad un vocabolario ricco e pieno di fantasia, contribuisce a mantenere magistralmente spontaneo e fresco. L’arte, la sfida di questa musica senza appoggio ritmico è quella di lievitare sospesa, in una evoluzione non narrativa, senza soluzione di continuità, che rinnova in continuazione i motivi di interesse. Tra gli elementi di maggiore fascino, la capacità di sviluppare una intensa interazione ma senza saturare la musica, con quattro attori ciascuno dei quali può essere ascoltato in maniera distinta, limpida, qui sul palco del Comunale grazie anche ad una impeccabile messa a punto dei suoni: con momenti di elegante pacatezza che fanno pensare ad una sorta di cool jazz post-free.

Braxton introduce nel gioco un filo di atmosfera “spaziale” con suoni generati dal computer. La chitarra di Halvorson fa a volte pensare ad un’arpa, poi tira fuori suoni blues, country, ma senza cadere nel linguaggio di un genere. Con la vocazione del mattatore, Ho Bynum, a tromba, cornetta, flicorno, eccetera, trova nella disciplina di questo quartetto una misura ideale per il suo virtuosismo inventivo nel linguaggio e nei timbri. Nel flusso, molti i gioielli. Ad un certo punto Braxton al sax alto evoca suggestivamente il parlare di una voce umana. Poi al soprano ha un momento di lirismo che ricorda Steve Lacy. In un passaggio verso la fine il suo sax alto, in una vena romantica, post-desmondiana, dialoga col tenore della Laubrock in un’atmosfera quasi cinematografica, di sottile erotismo. Cinquantacinque minuti perfetti. Adesso l’appuntamento imperdibile è per il Braxton monstre del Sonic Genome il 28 maggio al Museo Egizio di Torino: una settantina i performer, fra braxtoniani (tra cui i musicisti del quartetto) e italiani che hanno accolto l’invito a partecipare, e otto ore la durata prevista.