I racconti non sono il cavallo di battaglia di Stephen King, lo ammette lui stesso nell’Introduzione al suo ultimo titolo, Il bazar dei brutti sogni (Sperling & Kupfer, pp. 491, euro 19,90, a cura di Loredana Lipperini), che è appunto una raccolta di storie (relativamente) brevi, inedite o uscite in ordine sparso: «per natura sono un romanziere e mi piacciono soprattutto i libri oceanici che coinvolgono profondamente lettore e autore».
In effetti per qualsiasi «affezionato lettore» il nome del quasi settantenne ragazzo del Maine è legato a romanzoni interminabili come It o il più recente 22/11/63, la cui versione tv, una miniserie di 8 puntate, è in programmazione su Fox proprio in queste settimane, tutt’al più a qualche gemma di dimensioni più contenute, come i quattro bellissimi «romanzi brevi» (ma solo secondo gli standard kinghiani) dell’indimenticabile Stand by Me.

Nell’ultimo millennio, però, alcune delle cose migliori di King sono uscite proprio nelle raccolte di racconti, che forse non a caso si sono moltiplicate. Nei primi trent’anni o poco meno di carriera ne erano uscite tre, ma dopo il 2000 ne sono state pubblicate quattro includendo quest’ultima. Col tempo lo stile del King autore di romanzi e quello dello scrittore di racconti si sono sempre più diversificati. Lo scrittore ha sempre più riversato nelle storie brevi una vena grottesca, a tratti comica, che nei romanzi fluviali finisce giocoforza per essere oscurata dalla tragicità latente in ogni storia.
King, inoltre, è un lettore onnivoro e un maestro di stile. I racconti gli permettono di rendere a modo suo omaggio agli scrittori che ama, non imitandoli ma riconoscendo il debito che intrattiene con i loro universi narrativi. In questa raccolta, ad esempio, il folgorante Premium Harmony è una esplicita citazione del mondo desolato di Raymond Carver, con aggiunta quella vena di comicità che, secondo King, manca a «molti rinomati scrittori americani».

Nel Bazar che regala il titolo alla raccolta compaiono, accostati gli uni agli altri, tutti i numerosissimi filoni dai quali lo scrittore dall’immaginazione più fertile che ci sia in circolazione trae i suoi spunti.
Può trattarsi della semplice domanda: cosa succederebbe se quello che tutti una volta o l’altra hanno immaginato, la possibilità di uccidere qualcuno solo invocandone il decesso (o come in questo caso scrivendone il necrologio) si avverasse.

Può essere semplicemente il portare alle estreme conseguenze quel che capita negli states come a Napoli, quando i botti di Capodanno diventano una sfida a chi spara più forte. Può persino essere un racconto su commissione, come quello chiesto a King per il lancio del lettore kindle e diventato, nonostante l’iniziale ritrosia dell’autore, un eccellente storia, in parte collegata al ciclo «Torre nera», sulla possibilità di accedere non solo ai cataloghi della nostra dimensione ma a quelli ricchissimi di tutte le altre.
Quest’ultima raccolta non è un capolavoro come per esempio Tutto è fatidico, che resta uno dei titoli migliori nella sterminata bibliografia kinghiana. In compenso è una straordinaria prova di stile. Anzi di stili diversi: perché King approfitta della libertà concessagli dalla storia breve per lasciar andare a briglia sciolta tutto il suo virtuosismo di grandissimo narratore.
Così King dimostra per un’altra strada ciò che aveva provato lungo tutto il decennale percorso della sua carriera di scrittore: quanto la definizione «horror» sia angusta per un genere letterario che si è affermato come il più popolare, almeno negli Usa proprio in virtù della sua versatilità.

Nessun altro genere letterario come la letteratura «fantastica», infatti permette di spaziare dal realismo appena mascherato dello stesso King alle inquietudini metafisiche, consentendo allo stesso tempo di muoversi su registri stilistici molto più diversificati, per esempio, di quanto sia possibile con il noir.
C’è un esempio che, soprattutto se accostato alla raccolta del maestro del Maine, rende pienamente ragione di questa versatilità. Prima dell’apocalisse (Nord, pp. 432, euro 18.60) è firmato da Christopher Galt, pseudonimo dietro il quale si nasconde l’inglese Craig Russell, sin qui autore di best sellers polizieschi. L’esordio nel genere fantastico è un romanzo straordinario, che procede nel solco aperto dall’incommensurabile Philip Dick e di cui Matrix è pietra miliare.

Russell-Galt si muove su un piano quasi opposto a quello di King: l’americano riveste d’immaginazione il suo sostanziale realismo, l’inglese lavora come in un testo di divulgazione scientifica.
Per quanto pazzesca possa apparire la sua trama, non c’è un solo particolare nel libro che non risalga a ipotesi scientificamente accreditate, se non certe almeno plausibili, e deve alla fisica quantistica almeno quanto deve a Dick, alle ora sorelle Wachowski e un po’ anche al caposcuola di Providence, Philip Lovecraft.
La domanda da cui parte Russell è la stessa che poneva Dick: «e se la realtà della cui esistenza siamo certi fosse invece solo un’illusione?». Diversa non è tanto la risposta, quanto il metodo adoperato per affrontare la questione: dove Dick, ma anche Matrix, lavoravano di pura immaginazione, Russell, partendo appunto dalla fisica quantistica, si chiede se l’ipotesi di vivere in una sorta di realtà virtuale, in un mondo inesistente e costruito in laboratorio, sia scientificamente possibile.

Ma non si tratta solo dell’asse portante del romanzo. Russell sfoggia praticamente in ogni pagina una notevole erudizione scientifica, e ci vuole parecchio mestiere per farlo senza togliere un briciolo di suspence e di ritmo alla trama. L’autore inglese, sin qui cimentatosi sempre con spy-stories, arriva così, nonostante l’approccio opposto, a un approdo non molto distante da quello di King nel ciclo della «Torre nera».
Perché in fondo il segreto della letteratura fantastica, comunque declinata, è sempre lo stesso: interrogare la realtà per scoprire cosa la normalità quotidiana nasconda.