El Hadji non riesce proprio a capire. Ha visto al telegiornale le frontiere europee chiudersi come porte sbattute una dopo l’altra in Ungheria, Austria, Slovenia, Bulgaria. E poi i poliziotti ungheresi in tenuta antisommossa respingere i profughi, uomini e donne come lui. «Non capisco», dice. «Quando devi proteggere la tua vita scappi, vai in un altro paese. Che altro puoi fare? Non è giusto chiudere le frontiere in questo modo, non mi piace».
Lui sa perché quella gente, i siriani, gli eritrei e tutti gli altri, sta fuggendo. Molti mesi fa anche lui ha dovuto lasciare il suo paese, il Senegal, per non morire. Suo padre è stato ucciso dai ribelli della Casamance, la regione meridionale del paese che da decenni rivendica l’autonomia. «Un giorno sono arrivati dal Gambia. Mio padre era tornato dalla Spagna dove aveva lavorato per anni e aveva dei risparmi Gli hanno chiesto di unirsi a loro e di portare i suoi soldi. Lui si è rifiutato e loro gli hanno tagliato la gola», racconta. Se non fosse fuggito avrebbero fatto la stessa cosa a lui.
Oggi El Hadji si trova in un Centro accoglienza straordinaria (Cas) a Casale San Nicola, periferia nord di Roma. A luglio, quando si seppe che una cinquantina di richiedenti asilo sarebbero stati trasferiti nei tre bei casali che ospitano il centro gestito dalla cooperativa «Isolaverde» ci fu una sollevazione da parte dei residenti. Giorni di proteste e presidi culminati in uno scontro con la polizia quando il pullman con a bordo i giovani africani e asiatici si affacciò sulla strada che porta al centro. Poi la linea improntata alla fermezza della prefettura ha messo fine alla protesta. Complice l’estate tutto è poi rientrato e oggi la situazione sembra essersi calmata.
Questi sono giorni particolari al centro. Dalla prefettura hanno comunicato che gli appuntamenti fissati per febbraio con la commissione che ha il compito di esaminare le richieste di asilo e di protezione umanitaria sono state anticipati e 13 ragazzi devono presentarsi la prossima settimana Una notizia che ha fatto crescere il livello di ansia tra gli ospiti. «Si chiedono se saranno in grado di affrontare il colloquio», spiega Sofien Djouk, uno dei quattro mediatori interculturali. Come i suoi colleghi anche Sofien, tunisino, 46 anni, in Italia da 25, ha il compito di preparare questi ragazzi al colloquio. Non è un appuntamento facile. E’ dal giudizio della commissione che dipende infatti il futuro di queste persone. Se positivo è un po’ come rinascere, hai la possibilità di ricominciare a vivere. Altrimenti si precipita nel limbo dei ricorsi sperando che vada bene. Non a caso, spiegano gli operatori della cooperativa, i profughi soffrono tutti di ulcera.
Chi fa richiesta di asilo o di protezione umanitaria deve spiegare la propria storia ai membri della commissione e deve essere convincente. In più bisogna parlare in italiano. Spesso è un problema, perché per molti si tratta di una lingua ancora sconosciuta. Un avvocato spiega la legislazione, la possibilità di fare ricorso in caso di rigetto della domanda. «Ma soprattutto gli toglie dalla testa tante idee strane che circolano tra loro, gli fa capire che mentire non serve a niente, perché la commissione è composta da persone preparate in grado di riconoscere una bugia. Raccontare la verità è l’unico modo per sperare di farcela», raccomanda Sofien.
Nel centro sono ospitati 58 profughi, di età compresa tra i 18 e i 40 anni, quasi tutti africani. Arrivano da Mali, Gambia, Senegal, Niger, Guinea. A questi si aggiungono dieci ragazzi originari del Bangladesh. Ognuno ha alle spalle storie drammatiche, fatte di violenze e torture subite nel proprio paese oppure durante il viaggio verso l’Europa. C’è chi è fuggito perché la famiglia voleva che si unisse all’Isis, e chi ha passato mesi in prigione in Libia prima di riuscire a imbarcarsi su un gommone. Oltre ai mediatori culturali la cooperativa può contare sull’aiuto anche di due psicologi, un assistente sociale e 5 educatori. «Molti di loro hanno dei disturbi postraumatici» spiega Laura Selvaggi, la responsabile dell’equipe. «Spesso si manifestano solo con dei flash, frammenti di ricordi che faticano a emergere e sui quali bisogna lavorare. Che si tratti di persone che hanno sofferto non ci sono dubbi: i segni di quello che hanno passato, violenze e torture, sono ancora visibili».
Trascorsi i primi giorni adesso l’attività del centro è avviata completamente. Sono stati organizzati corsi di italiano e di musica, anche questi comunque finalizzati all’apprendimento della lingua. Ci sono le visite mediche e psicologiche. Una stanza è adibita a moschea, mentre chi vuole può uscire approfittando di una navetta che fa la spola con la vicina stazione di La Storta. Alle pareti sono appesi cartelli in inglese, francese e italiano che informano sulle attività, ma anche sulle regole che vanno rispettate senza discutere tanto. Tutti sanno che la permanenza nel centro può durare anche dei mesi. Mesi passati aspettando una convocazione che, comunque vada, cambierà la loro vita.