Nelle foto dei disordini di Ferguson, negli Stati Uniti, molti manifestanti indossano la maschera di Guy Fawkes, simbolo della «legione» di Anonymous. Sono immagini che rappresentano come quella maschera non indichi solo un’attitudine hacker che l’era dei social network sembrava aver consegnato ai libri di storia. Guy Fawkes è ormai il brand assunto come un marchio di radicalità da parte di alcuni dei movimenti sociali. Quel volto ghignante ratifica anche il fatto che è venuto meno meno il confine simbolico tra la vita dentro e fuori la Rete che ha fin qui tenuto banco.

Internet è divenuto quel medium universale vagheggiato da qualche bistrattato teorico radical in anni passati: la sua virale diffusione ha investito, come uno tsunami, le modalità dell’agire politico, le forme organizzative del conflitto e del controllo sociale. Le macerie che ha lascito dietro di sé sono però poca cosa rispetto alla possibilità di infrangere l’uso capitalistico che viene fatto della macchina informatica. Anonymous svela cioè l’ambivalenza di una realtà dove il conflitto dentro e fuori la Rete continua ad essere una spinta all’innovazione. La posta in gioco è dunque lo sviluppo di un lessico politico che sciolga tale ambilenza.

Anonymous è un gruppo in rapido divenire. Difficile farne una fotografia o una rappresentazione univoca. C’è però un elemento che accomuna gli hacker che usano il suo logo negli Stati Uniti, in Brasile, in Italia: il rapporto preferenziale stabilito con chi si colloca «fuori dal sistema», battendosi però dal suo interno. È questa parziale politicizzazione che inquieta governi, amministratori delegati e forze dell’ordine. Il libro di Gabriella Coleman documenta l’evoluzione politica di Anonymous. Lo fa con cautela, ma con rigorosa precisione. È questo il merito del volume da poco pubblicato dalla casa editrice Verso (con la speranza che venga tradotto rapidamente). Il compito, adesso, è proprio di sviluppare quel lessico politico che dissolve le ambivalenze dell’hacktivismo.