È arrivato all’improvviso nel giugno scorso, come un’urgenza. E così, in due mesi, Cristina Cattaneo ha scritto Naufraghi senza volto (Raffaello Cortina Editore, pp. 198, euro 14), un libro necessario perché, parlando di che cosa significa dare un nome ai morti nel Mediterraneo, immerge lettore e lettrici nella questione epocale delle migrazioni e dei diritti umani negati con cui l’Europa dovrà fare i conti, prima o poi.

Docente ordinaria di Medicina Legale presso l’Università di Milano, 54 anni, incontriamo Cristina Cattaneo nel suo studio da cui dirige anche Labanof, laboratorio di antropologia e odontologia forense. Creato nel 1995 per far conoscere il problema dei morti senza nome, Labanof si è battuto affinché venisse creato il Registro dei cadaveri non identificati ed è diventato un punto di riferimento per procure, centri antiviolenza, archeologi. Qui si stabiliscono cause ed epoca di un decesso, si identificano vittime di disastri di massa, si lavora anche sui vivi verificando età di richiedenti asilo, segni di maltrattamenti, torture, violenze.

CON I FENOMENI migratori, Cattaneo e i suoi colleghi hanno cominciato a lavorare sulle identità di chi è morto cercando di arrivare sulle coste italiane. Il libro si concentra in particolare su tre naufragi: quelli del 3 e 11 ottobre 2013 al largo di Lampedusa dove morirono 366 persone, quello del 18 aprile 2015, la più grave tragedia umanitaria del Mediterraneo dove annegarono circa mille persone. Attorno a quel «circa» ruota l’essenza di Naufraghi senza nome. Lo chiamano il Barcone, è un vecchio peschereccio di 22 metri. Avrebbe potuto portare 30 persone, i libici ve ne stiparono centinaia. Affondò e nessuno sopravvisse. Tra fine giugno e novembre 2015 furono recuperati 169 corpi che vennero esaminati da Cattaneo e colleghi nella struttura allestita apposta dalla Marina Militare nella base di Melilli (Siracusa), ma la gran parte del carico umano che stava marcendo dentro lo scafo si riuscì a recuperare, con fatica, l’1 luglio 2016.

ESAMINARE un corpo rimasto sott’acqua pochi mesi è molto diverso dall’analizzare resti sommersi per oltre un anno. I primi sono abbastanza integri. I secondi si possono trovare a pezzi o in poltiglia. Anche il lavoro e le emozioni di un medico legale cambiano.

«Cercare di identificare un corpo – dice Cattaneo – significa entrare nella sua intimità. Nel nostro lavoro, ciò che crea empatia sono gli oggetti che troviamo sui cadaveri più che i volti. Ogni morto porta con sé la propria storia, cose semplici che sono un simbolico della sua soggettività e mostrano la sua vita, la sua storia, gli ultimi gesti prima di partire o morire. Li trovi e vedi che sono uguali ai nostri. Nel portafogli di un ragazzo del Gambia abbiamo trovato un passaporto, la tessera di una biblioteca locale, la carta dello studente e un certificato di donatore di sangue. Cucita dentro la giacca di un adolescente del Mali c’era una pagella in francese e chissà con quali aspettative l’aveva portata con sé. Ma ciò che mi ha colpito di più è stato un fagottino ricavato da una maglietta all’altezza dell’ombelico. L’aveva addosso un ragazzo eritreo di circa 20 anni e conteneva terra. Aveva portato con sé, come fanno molti suoi connazionali, un po’ di terra del suo paese».

Quando, grazie all’Ufficio del commissario straordinario del governo per le persone scomparse (istituito con la legge n. 278 del 2012 e l’unico del genere in Europa), si decise di partire con l’identificazione dei morti, Cattaneo scrive che si trovò di fronte a reazioni disparate, fra cui chi diceva «Ma a chi vuoi che importi cercare queste persone? Buttate una corona in mare e lasciate perdere». A costoro Cattaneo risponde così: «E se la persona scomparsa fosse vostra figlia?

Non c’è niente di peggio per un genitore non sapere se il proprio figlio scomparso è morto o no. Identificare i morti può sembrare un lusso, ma per un vivo sapere che fine ha fatto un proprio familiare diventa una salvaguardia della salute mentale e dei diritti ed è stato dimostrato che questa perdita, definita ambigua, può portare a depressione, alcolismo. Poi ci sono i diritti dei vivi. Un bambino che era rimasto in Somalia è diventato adottabile dallo zio solo dopo che il corpo della madre è stato identificato fra i naufraghi. Dare un nome ai morti è una spesa che serve per un investimento culturale e civico».

A Melilli Cattaneo e i suoi colleghi hanno lavorato in varie fasi e per molti mesi supportati da militari, vigili del fuoco, colleghi di 12 università. Lì si trova ancora il Barcone. Lì Cattaneo ha visto la parte migliore dell’Italia. «Ho vissuto i primi 12 anni della mia vita in Canada e, come tutti gli emigranti, sono sempre stata innamorata dell’Italia dove ho voluto lavorare perché abbiamo qualità eclettiche e siamo bravi in certe cose, mentre altre non funzionano. Quello che ho vissuto soprattutto a Melilli è stato uno spiraglio di luce in un periodo europeo cupissimo.

HO VISTO gente con volontà enorme e tanto coraggio: la Marina Militare che ha organizzato tutto in modo impeccabile, giovanissimi Vigili del Fuoco che hanno superato con uno slancio commovente la ripugnanza di estrarre per la prima volta corpi in disfacimento, l’odore della decomposizione, ossa sparse ovunque. È stato un esempio di efficienza e altruismo che nessun altro in Europa ha fatto».

«I morti a Lampedusa – continua Cattaneo – sono 366, la metà è stata identificata quasi subito, per gli altri corpi si sono presentati 70 parenti e li abbiamo identificati quasi tutti. Sul Barcone abbiamo contezza di 528 corpi assemblati e sepolti con un numero dopo i prelievi in Sicilia, ma nessuno è ancora stato identificato.

SONO STATI FATTI i prelievi genetici per quelli che avevano addosso dei documenti permettendoci di cercare le famiglie nei paesi d’origine. Si riuscirà a sapere quanti erano esattamente forse fra un anno e mezzo, quando finiremo di esaminare le 25mila ossa sparse che abbiamo recuperato e che sono a Labanof.

Ognuno di noi ha 206 ossa. Di un bambino abbiamo trovato solo un dente da latte, poi ci sono 325 crani recuperati in posizioni diverse rispetto ai corpi. Secondo me rappresentano 325 persone in più, ma non possiamo dirlo perché servirebbero ulteriori esami e per farlo abbiamo bisogno di soldi».

«Il mio terrore – termina Cattaneo – ed è il motivo per cui ho scritto questo libro, è che fra 50 anni non ci sia più idea di quello che succedeva e di chi moriva nel 2018. Vorrei che il Barcone diventasse un simbolo al centro di un museo, o di un film, o di una mostra itinerante che faccia vedere ai nostri ragazzi chi erano le persone che vi sono morte, in che spazi sono state stipate, che cosa avevano in tasca.

Melilli e il Barcone hanno un materiale e una storia fondamentali per capire che cosa significa imbarcarsi e morire in un naufragio mentre si scappa da guerre, dittature, torture, fame. Mostrarlo sarebbe una grande lezione di educazione civica».