Una giacca firmata Giorgio Armani. Costo 12.450 dollari. E un discorso sulle enormi diseguaglianze di reddito in America, sulle nuove povertà, sui posti lavoro che non ci sono e che vanno creati. Lo scorso aprile, nella campagna per le primarie di New York, Hillary Clinton sfoggiava una delle mise che, secondo il New York Post che l’ha rivelato domenica scorsa, segnano il nuovo look di una conferenziera che arriva a ricevere un compenso di 325.000 dollari per un discorso pubblico e che si considera già alla Casa bianca.

Non è la Hillary del 2008 che indossava abiti non firmati, e spesso più volte gli stessi. Allora la corsa non le andò bene. Oggi, otto anni dopo, sembra che le cose vadano al meglio, e dunque anche la «tenuta presidenziale» deve dare l’idea di una candidata che ha già vinto. Il New York Post è un giornalaccio, ma, intanto, nei giorni scorsi la fotonotizia della giacca Armani combinata col discorso sulle ingiustizie sociali è girata furiosamente nei blog di diverso orientamento, come l’ennesima riprova che Hillary è duplice, ambiziosa, distante dalla gente comune e dai suoi problemi, interessata al potere e basta.

Se l’idea dei suoi strateghi – che naturalmente intervengono anche sul look della candidata – era quella di conferirle, già nella sua eleganza, una figura «presidential», l’effetto è stato opposto. È considerata un’ulteriore prova, da parte dell’elettorato di sinistra e della moltitudine degli antagonisti comunque di Hillary, che Clinton è «impresentabile»: il loro sostegno e poi il loro voto, non l’avrà. Ma lo vogliono, poi, il loro sostegno, Hillary, i suoi strateghi, l’establishment democratico? O hanno in mente un percorso che tagli fuori la sinistra per sconfiggere Trump e poter arrivare alla meta, a novembre?

La scelta – alla vigilia delle primarie in California, New Jersey, Montana, North Dakota, South Dakota e New Mexico – di annunciare il raggiungimento, da parte di Hillary, del numero magico di delegati – 2.383 – necessario per avere assicurata la nomination è stata un colpo basso nei confronti di Bernie Sanders e del suo movement, l’opposto della mano tesa verso l’avversario con il quale s’intende arrivare a un’intesa. Innanzitutto l’annuncio dato dal Democratic National Committee si basa sul conteggio dei superdelegati – i delegati alla convention di diritto: alti funzionari del partito, parlamentari, governatori ecc – che, a frotte, guarda un po’, proprio alla vigilia del supermartedì californiano avrebbero deciso di schierarsi per Hillary.

Senza contare che il loro voto «reale» lo esprimeranno solo in sede di convention, e che dunque di qui al 26 luglio potrebbero anche decidere di votare per Bernie. Così, adesso Clinton ha 1.812 delegati e 571 superdelegati, mentre Sanders ne ha rispettivamente 1.521 e 48. La tempistica è indecente. Fatta apposta per scoraggiare quella parte di elettorato che oscilla verso Bernie e che, ovviamente, potrebbe adesso ripensarci, sapendo che ormai i giochi sono fatti, e che non c’è più spazio per le ambizioni di Sanders. La rinuncia, anche di una parte non rilevante di elettori tendenzialmente pro-Bernie, potrebbe alla fine fare la differenza in California e consegnare la vittoria a Hillary, la quale, naturalmente, tiene particolarmente a chiudere in bellezza la sua corsa democratica con un gran finale nel Golden State. Diversamente, pur vantando la vittoria in tasca, una sconfitta in California sarebbe un duro colpo politico.

Quindi la scelta tattica di annunciare il conseguimento della nomination lascia intuire una scelta strategica da parte dei clintonistas, sia in vista della convention di Filadelfia sia, soprattutto, in vista delle elezioni presidenziali di novembre. Hillary cerca di ottenere una parte cospicua dei voti di Sanders senza dover venire a patti con il rivale. Con lui ci potrà anche essere un accordo sulla piattaforma in sede di convention, tant’è vero che nella Platform Drafting Committee, la commissione che deve stilare il programma ufficiale democratico, su quindici membri sei sono di Clinton, quattro sono di Debbie Wasserman Schultz, clintoniana, chairwoman del Democratic National Committee e cinque andranno ai sanderistas (si tratta del filosofo e attivista africano americano Cornel West, di Keith Ellison, anche lui nero, il primo musulmano eletto in Congresso, dell’ambientalista Bill McKibben e di Deborah Parker, femminista e attivista Native American, James Zogby, arabo cattolico di origine libanese).

Ma quest’accordo potrebbe rivelarsi una messinscena congressuale di scarso valore pratico, in assenza di un patto più largo e solido, riguardante innanzitutto la designazione del candidato vice-presidente e, poi, la composizione del futuro governo. La dichiarazione di vittoria a urne ancora aperte indica lo scenario di una candidata che intraprende un percorso di altro segno, centrista e moderato, nel tentativo di sbarrare la strada a Donald Trump, sottraendogli i voti dell’elettorato repubblicano che non si sente rappresentato dal magnate newyorkese. È una via che le è congeniale, è la classica linea clintonista della conquista del centro. A sinistra cercherà voti, puntando sulla novità di una presidente donna, sfidata dal più misogino candidato presidenziale della storia americana.

È un calcolo che, forse, in passato poteva avere un fondamento, ma che nell’America di oggi potrebbe rivelarsi sbagliato e suicida. E lo dimostra proprio il successo straordinario ottenuto da Bernie Sanders, che non ha nulla di effimero, ma che interpreta un nuovo ciclo, probabilmente di lunga durata, della lotta politica negli Usa, tra due idee e visioni nettamente contrapposte, sinistra/destra, del futuro della società americana.