Incontro ieri tra il provveditore reggente dell’amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, subentrato ad Antonio Fullone (sospeso perché indagato) e il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, quello napoletano Pietro Ioia e la garante di Caserta Emanuela Belcuore. Al centro del colloquio soprattutto l’inchiesta sulla «perquisizione straordinaria» del 6 aprile 2020 al reparto Nilo del carcere di S. Maria Capua Vetere, quella che il gip ha descritto come «un’orribile mattanza» disponendo le misure cautelari per 52 indagati, i reati vanno da tortura a maltrattamenti, lesioni, falso e depistaggio. I garanti hanno messo sul tavolo la questione dei detenuti trasferiti dopo l’esplosione dell’inchiesta, la scorsa settimana.

Per oltre un anno «maltrattanti e maltrattati sono stati nello stesso istituto», hanno spiegato, in un clima difficile poiché i detenuti ai magistrati hanno raccontato delle percosse e hanno fatto mettere a verbale i nomi degli agenti che hanno riconosciuto. Da venerdì scorso, di notte, sono cominciati gli spostamenti fuori regione, fino a 600 chilometri di distanza. Per ora sono in 42 a essere finiti a Modena, Sollicciano, Civitavecchia, Rieti, Palermo, Palmi. La disposizione è arrivata su segnalazione della procura, ha spiegato Cantone. «Ma la procura – la replica di Ciambriello – non ha specificato che dovessero essere tradotti così distanti». E Belcuore: «L’allontanamento danneggia le famiglie e rende difficile il rapporto con il difensore. Poi è strano che chi ha fatto domanda di trasferimento sia rimasto e proprio loro, solo ora, siano stati spostati». Da Cantone l’impegno a verificare il rientro.

Sono rimasti 15 mesi nello stesso carcere con gli indagati perché né il Dap né il provveditore campano hanno preso iniziative prima che arrivassero le misure cautelari. Eppure la notizia che qualcosa fosse successo è iniziata a circolare anche sulla stampa dopo i post sui social dei detenuti pestati, siamo all’8 aprile 2020. Lo stesso giorno Ciambriello fa un esposto in procura. Il magistrato di sorveglianza Marco Puglia il 9 fa un’ispezione, inoltra la relazione e, sulla base di quanto riscontrato, l’11 vengono sequestrate le telecamere. A giugno arrivano gli avvisi di garanzia. I pm negli atti raccontano il clima in carcere. Pasquale Colucci (comandante del nucleo traduzioni e piantonanti), Gaetano Manganelli (comandante della polizia penitenziaria), Anna Rita Costanzo (responsabile del Nilo) con altri ispettori e agenti sono accusati di «minacce gravi, azioni crudeli, degradanti e inumane, prolungatesi per circa 4 ore del giorno 6 aprile e nei giorni successivi».

Al detenuto Ciro Motti è stato riscontrato «un trauma policontusivo, principalmente localizzato al dorso, ai glutei, alla mano destra e al piede sinistro e un trauma psichico consistente in “disturbo da stress post-traumatico”». Il 6 aprile era nella cella 3, IV sezione del Nilo. Arrivano gli agenti e lo mettono faccia al muro, si deve spogliare per essere perquisito: flessioni con colpi inferti ai fianchi e la minaccia «mo’ ti mettiamo il manganello nel culo e ti facciamo uscire il telefono». Lo portano nella sala socialità tra pugni, calci e schiaffi fino a farlo cadere al suolo. Nella stanza finisce ancora faccia al muro, in ginocchio. Il pestaggio è talmente forte da fatargli mancare l’aria. Nel ritorno in cella altre botte tra due file di agenti.

Dopo il 6 il regime cambia: rasatura quotidiana della barba per tutti, inibite le videochiamate con i familiari o comunque il contatto con l’esterno. La conta si deve fare in piedi, le mani dietro la schiena, lo sguardo basso. Gli agenti commentano: «Chiusura per sempre e non possono fermarsi vicino a nessuna cella, solo passeggio, nessuno parla, solo grazie scusate e per favore, non vola una mosca. E chi non lo fa giù al gabbione».

Il 9 aprile, in occasione della conta, un agente trova Motti seduto a leggere la corrispondenza. Lo preleva e lo porta al piano terra, difronte all’infermeria. In quattro lo prendono a schiaffi e pugni. Il 17 aprile il medico del carcere riporta in cartella clinica «riferito trauma cranico da percosse». Motti ha spiegato che i disturbi alla testa e alla vista sono una conseguenza delle aggressioni del 6 e 9. Dopo 2 o 3 giorni, due agenti lo invitano a modificare la versione resa: «Il verbale fatto dal medico non va bene – gli dicono -, perché non si capisce le lesioni da chi sono state fatte» e gli suggeriscono di dire che sono opera di altri detenuti. A dare manforte arrivano altri 10 poliziotti: «Farai una brutta carcerazione – aggiunge uno di loro – e ti cito per diffamazione perché non hai niente. Guarda che qui devi stare 3 anni».

Il 25 aprile nuova visita con un altro medico, che chiama il 118. Due agenti dirottano l’ambulanza verso un altro detenuto. Si ripete la minaccia: «Ti denunciamo per diffamazione se continui a sostenere di stare male».