Sono probabilmente parecchie le persone che guardano con sbigottimento alle manovre che vanno sotto il nome di «rimpasto». Tra questi c’è sicuramente il capo dello Stato. Mattarella assiste allo spettacolo con gelo più che con semplice tepore. Un po’ per il momento poco opportuno, con una maggioranza che invece di incassare i primi successi nella lotta contro il virus riesce a far giganteggiare Berlusconi. Un po’ perché un politico esperto come Mattarella è ben consapevole dei rischi che implicherebbe mettere mano al fragile edificio di questo governo.

EPPURE LA QUESTIONE è in campo davvero. Non subito, questione di mesi non di settimane, e forse con intenti diversi da parte di chi spinge l’ipotesi. Renzi fa sul serio anche se ieri, rivolto ai suoi, ha negato: «Prima viene l’agenda, poi la squadra. Quello sul rimpasto è solo stucchevole chiacchiericcio e questo ho detto a Conte». Mira davvero al rimpasto anche Orlando, vicesegretario Pd, e con lui un’area forte de partito. Zingaretti è più incerto e forse più ambiguo. In privato fa capire di voler tenere il premier sotto pressione soprattutto per forzargli la mano su alcuni temi chiave come la legge elettorale, ma il sospetto che invece miri a rimodellare il dna del governo è diffuso. Tra i 5S il reggente Vito Crimi fa scudo al governo intonso: «Chi parla di rimpasto è fuori dalla realtà». Ma Di Maio oscilla e una decisione reale ancora non la ha presa, anche perché con il Movimento terremotato difficilmente potrebbe prenderla in questo momento.

IL PREMIER SI RENDE conto che, a emergenza Covid almeno parzialmente superata, rimaneggiare la squadra potrebbe essere inevitabile. Quindi mette le mano avanti e chiarisce che, in ogni caso, non si deve tornare ai vicepremier. Cerca di evitare in partenza il rischio di ritrovarsi sotto tutela. Di certo se i tre leader di partito si presentassero da Mattarella con un accordo, il presidente non potrebbe obiettare niente e a quel punto anche Conte dovrebbe prendere atto della situazione. Raggiungere un simile accordo è però un’impresa improba, anche se qualche passo avanti in quella direzione i tre lo hanno fatto e sul nodo dei vicepremier la pensano all’opposto di Conte.

Del resto nei palazzi non è sfuggita a nessuno la portata del pezzo inviato dal ministro degli Esteri al Foglio, e la testata scelta ha il suo peso: il manifesto di un partito neo-liberista che nel Pd commentano con sarcasmo: «Avrebbe difficoltà a firmarlo persino la Cdu». È impossibile credere che uno spostamento di simile portata, tanto che neppure vengono nominati i «beni comuni» cavallo di battaglia di quello che fu il M5S, non abbia portata strategica.

TRA GENNAIO E FEBBRAIO la partita probabilmente si giocherà davvero e non sarà priva di pericoli per la stabilità del governo. In quali condizioni ci arriveranno governo e maggioranza sarà determinante. Ieri Conte, i capidelegazione, i ministri dell’Economia e degli Affari europei e il sottosegretario Fraccaro hanno affrontato il tema spinoso del Recovery Plan italiano. Le spine in questione non sono ancora dove e come investire i miliardi europei, peraltro ancora bloccati a Bruxelles dal veto di Ungheria e Polonia, ma chi dovrà gestirli. Conte insiste per una cabina di regia insediata e dunque guidata da palazzo Chigi. Il Pd cerca di evitare l’ennesima forzatura centralizzante del premier con diverse ipotesi alternative, in ciascuna delle quali il ruolo di palazzo Chigi sarebbe almeno controbilanciato.

MA LA SPINA PIÙ acuminata, o almeno più prossima, è la riforma del Mes. Un no italiano imposto dai 5S sarebbe deflagrante e al momento quel parere negativo non è ancora stato superato. Quando domani Gualtieri, a ridosso del vertice Ecofin a Bruxelles, incontrerà le commissioni congiunte di Camera e Senato, si limiterà prudentemente a un’informativa, dunque senza alcun voto. Il momento della verità sarà il 9 dicembre e a quel punto governo e resto della maggioranza cercheranno di conquistare i 5S mettendo ai voti un testo che sottolinei come questa riforma vada intesa quale passo nella direzione di superamento del Mes indicata dal presidente del Parlamento europeo Sassoli, mettendo anche nero su bianco che l’Italia, almeno per ora, non intende chiedere il prestito sanitario. La mediazione con Pd e Iv su questo punto non sarà facile e in ogni caso l’eventualità di dissensi tra i senatori 5S è più che realistica. La riforma passerebbe comunque col voto di Fi. Ma se i voti azzurri fossero essenziali la botta sarebbe micidiale.