Sono settimane in cui esponenti della Lega e del M5S paventano un regolamento di conti tra le classi dirigenti e il governo Conte che in autunno potrebbe essere sotto l’attacco dei mercati finanziari, diventati sinonimo di speculazione.

La prima sensazione è che la maggioranza, un po’ ingenuamente, metta le mani avanti sulle proprie capacità di governo. La questione, però, risulta più complessa.
Effettivamente l’attuale compagine governativa sembra spesso improvvisare in modo dilettantesco, e in modo altrettanto inusuale esprimere idee eterodosse, come la proposta del reddito di cittadinanza oppure le tesi recentemente sostenute sul ruolo pubblico nei gangli dell’economia (compagnie aeree, autostrade, concessioni in genere). Persino l’ipotesi di Flat Tax, per quanto di natura diametralmente opposta, costituisce un’ipotesi pericolosa per le casse di uno Stato come quello italiano per i costi che potrebbe implicare.
Insomma c’è un problema di bilancio sia per le politiche espansive sia per quelle ultra-liberiste.

Il fatto che entrambe le ipotesi possano essere fonte di guai significa che il contesto è ancora molto fragile. A complicare il quadro si aggiunge il fatto che al termine del 2018 verrà meno l’ombrello della Bce con il quantitative easing. Non va dimenticato, infatti, che in questi anni l’acquisto di titoli pubblici è stato realizzato mediante l’azione di Francoforte, unico attore che ha visto crescere considerevolmente la propria quota di titoli italiani attraverso la Banca d’Italia.

Nel 2019 la Bce potrà solo riacquistare titoli in scadenza, ma non potrà acquistarne di nuovi, si parla di non più di 40 miliardi a fronte di 257 miliardi in nuovi titoli a medio-lungo termine. Questa mole di titoli dovrà essere acquistata dai tradizionali operatori. Il protagonismo della Banca centrale è stato tale che Claudio Borghi, economista-parlamentare della Lega, annuncia che la fine del qe comporterà inevitabilmente l’avvio dell’attacco all’Italia (come se questa decisione rispondesse a logiche nazionali e di breve termine).

Le scelte della Bce, invece, sono in funzione del quadro internazionale e dei tassi d’inflazione in miglioramento, d’altronde il cosiddetto tapering (ritirata graduale) è in corso da prima della nascita del governo giallo-verde.

In questi anni la crisi ha nuovamente riequilibrato la composizione degli investitori in titoli italiani, riducendo quelli esteri che nel 2017 detenevano una quota pari a circa il 32%, equivalente a 700 miliardi. Questo segmento resta più sensibile al rischio-Italia e propende a giocare in difesa attraverso la fuga piuttosto che a un attacco con scommesse ribassiste.
Secondo la Bce a giugno si è registrato un record delle vendite di Btp da parte di investitori esteri pari a 38 miliardi, a maggio erano stati 34. Chi invece continua ad acquistare i nostri titoli sono le banche italiane che nel solo secondo trimestre hanno incrementato la loro quota per 40 miliardi. Tale riequilibrio se da un lato dovrebbe consolidare il debito sovrano dall’altro lo rende più fragile in quanto eccessivamente concentrato in un settore che viene considerato tuttora debole non solo per l’elevata mole di crediti deteriorati che detiene, ma per la più generale debolezza che lo caratterizza e che la crisi turca ha evidenziato, in particolare con Unicredit, seconda banca del paese.

Non a caso appena si intravede un nuovo fattore d’instabilità crollano gli indici delle banche e aumenta lo spread. Complessivamente un bel dilemma, tra rigide regole mainstream da un lato e un governo che prova a smarcarsi in maniera impacciata da queste politiche dall’altro.

Ne risultano direzioni contraddittorie, con un Salvini che impazza con proposte nazionaliste che per ora sdoganano solo un imbarbarimento generale. Se questa è l’unica prospettiva per uscire da politiche economiche blindate ci aspettano tempi duri.