Un terzo della produzione industriale italiana è stato annientato a causa della crisi indotta dal Covid 19. Secondo la stima dell’Istat, realizzata in base all’indice destagionalizzato, a febbraio è diminuita del 28,4%, un dato mai registrato da quando esiste la rilevazione delle serie storiche che partono dal 1990. A marzo ha perso il 29,3%. E ad aprile, mese di «lockdown» totale di una parte della produzione, il dato potrebbe essere peggiore. Per Anie Confindustria è l’industria elettrotecnica ed elettronica ad avere registrato a marzo il calo peggiore pari al 34,4%. A febbraio è stato del 37,9%.
Per un’economia come la nostra basata sulle esportazioni, e in particolare nel settore industriale posizionato nella subfornitura globale, l’impatto della crisi si sta rivelando devastante, molto di più rispetto a paesi come la Francia o la Germania. I primi dati sono già peggiori di quelli dell’ultima crisi nel 2008-2009, quella da cui l’Italia non si è mai più ripresa completamente.

La crisi è stata indotta dalla decisione di mettere «in coma» l’intero sistema capitalistico di produzione, nella speranza probabilmente vana che il suo motore riesca a ripartire come prima. Il blocco, anche momentaneo, dell’accumulazione e dello sfruttamento si sta invece dimostrando rovinoso in tutti i settori dell’attività economica, raggiungendo in molti casi intensità inaudite.

Nella fabbricazione di mezzi di trasporto e nelle industrie tessili, abbigliamento, pelli e accessori la caduta congiunturale e tendenziale supera ampiamente il 50 per cento. I settori che hanno registrato una tenuta sono invece quelli delle industrie alimentari, bevande e tabacco che, considerando la media degli ultimi tre mesi mantengono una dinamica tendenziale positiva.
L’ufficio studi di Confcommercio ha previsto un’ondata di fallimenti nel commercio e nei servizi. Colpirebbero 270 mila imprese su 2,7 milioni se le attività non dovessero essere riaperte completamente entro ottobre a causa dell’impossibilità di pagare i costi fissi. Parliamo di ambulanti, negozi di abbigliamento, alberghi, bar, ristoranti e imprese legate alle attività di intrattenimento e alla cura della persona. Anche in questo caso i dati potrebbero essere peggiori a causa della desertificazione della domanda. Lavoratori e famiglie non guadagnano o sono in cassa integrazione: sono fattori che distruggono la capacità di consumo.

Le sorti dell’apparato della produzione sono legate al temuto ritorno dei contagi in autunno. Nel Documento di Economia e Finanza (Def) il governo ha previsto una perdita eventuale del 2,8% del Pil che si andrebbe ad aggiungere al già previsto 8% per il 2020. Questo dato è considerato peggiore dalla Commissione Ue: meno 9,5%. Prevedibilmente la perdita del Pil sarà a doppia cifra. È anche previsto un aumento della disoccupazione pari a mezzo milione di persone. Sono gli effetti della contraddizione a cui è soggetto il capitale: proteggere la vita dal contagio comporta la rovina della produzione. Esporre la vita alla produzione può comportare l’aumento delle morti da virus.

In un sondaggio di Save The Children condotto su oltre mille famiglie sono emersi gli effetti sociali di questa contraddizione. Quasi 1 genitore su 7 in povertà ha perso il lavoro, oltre la metà temporaneamente. Quasi la metà delle famiglie con bambini tra 8 e 17 anni ha ridotto le spese alimentari e il consumo di carne e pesce. La chiusura delle scuole ha privato i bambini del servizio mensa che permette di mangiare. Il 21,5% delle famiglie non ha comprato medicinali. Una su cinque ha chiesto prestiti a familiari o amici, il 15,5% ha chiesto aiuti alimentari. Con l’aumento della disoccupazione e della precarietà, l’esaurimento dei bonus per le partite Iva e delle casse integrazioni, l’irrisorietà del «reddito di emergenza» che sarà istituito dal «decreto rilancio»,questa crisi sociale si avviterà con quella economica. Una tempesta perfetta che il governo vede arrivare senza riuscire a reagire.