Fu uno straordinario Ang Lee a lanciare nel 2005 Annie Proulx, sino ad allora autrice appartata di romanzi non di particolare risonanza, se si eccettua l’acclamato Pulitzer del 1997, il travolgente Avviso ai naviganti. Lee seppe dare una giusta ribalta a questa brava scrittrice di origini quebecchesi (alle quali tornerà nella sua ultima fase), nata nel Connecticut e poi insidiatasi nel Wyoming. L’occasione fu il film, I segreti di Brokeback Mountain, tratto da uno dei racconti di Close Range: Wyoming Stories (del 1999). Con una bella prefazione e traduzione di Alessandra Sarchi minimum fax lo ripropone assieme a altri dieci racconti, primo di tre volumi, sotto il titolo Distanza ravvicinata Storie del Wyoming/1 (pp. 316, e 16,00).

Il nerbo addolcito
Più della raccolta, il film, vincitore del Leone d’oro a Venezia nel 2006 e di ben tre premi Oscar, fece scalpore, non solo per la bravura di Lee, ma perché, sorprendentemente, vi si smontava la figura macho del cowboy di tradizione ottocentesca, scoprendone, in contro-narrazione, un’innocente, e dolorosamente vissuta, vicenda di omosessualità: anche i cowboy, uomini di nerbo maschile, possono essere gay. Leggere il libro (e dimenticare il film) in un prosa limpida ma scompigliata nel mélange delle sovrapposizioni temporali e deittiche, è l’invito a ritrovare gli indizi di Annie Proulx, attratta dagli aspri spazi del Wyoming, storicamente zona di grande afflusso di mandrie, persino ad opera degli sfollati del Sud, i più sbandati dalla Guerra civile, che praticarono quel mestiere come mezzo di sopravvivenza.
L’esempio più vistoso di invenzione del muscoloso conduttore di manzi si trova in The Virginian di Owen Wister, compagno di caccia di Teddy Roosevelt, e amante del Wyoming, un paradiso naturale e crudele, da lui visitato più volte. Da lì, gli venne l’ispirazione per il fortunatissimo The Virginian (1902), il romanzo considerato il pater della figura letteraria e convenzionale del cowboy.

Al di là delle origini edeniche, storiche e fatalmente sanguinarie di quel territorio, sintomatico è il giudizio di Joyce Carol Oates, che dice di avvertire nella scrittura di Proulx, «una casualità sinistra e ingannevole fino al punto di impatto e alla catastrofe». Quando si pensa al traumatico passaggio di millennio (aruspici: Don DeLillo, Philip Roth, Paul Auster, Stephen King, Cormac McCarthy, la stessa Oates), torna il sospetto che il travaso fu portatore di una sindrome da Apocalissi, la cui fattualità e durata è tutta da verificare. Ciò che rimane ancora in bilico della vecchia America sono i paesaggi sublimi, quelle ampie zone delle quali Theodore Roosevelt stabilì l’intoccabilità, facendone parchi nazionali.

Proulx fa in tempo a riportare in vita quel mito surrettizio cinque anni prima che Cormac McCarthy, nel suo La strada, ne mostri la drammatica decadenza. Ma quali storie raccontano quegli spazi sacri ancora protetti, e innocenti – se non fosse per i mounds cimiteriali dei Sioux uccisi da Custer – quale altro sottobosco umano seppelliscono?
In «Il manzo scuoiato a metà», l’ottantenne Mero, trasferitosi nel Massachusetts, viene richiamato al ranch per assicurarne la sopravvivenza: il vecchio Rollo, suo fratello, con il quale aveva avuto dissidi, è morto evirato da un emù. Un emù? si chiede Mero. Certo, gli risponde la nipote: «Hai mai sentito parlare del Vecchio Wyoming?» E, fra varie disavventure, Mero torna a quelle terre in macchina (quattro giorni) per il funerale, mentre nella testa gli frulla tutto il passato in un ammasso incoerente di episodi, dai petroglifi indiani alla penuria di cibo, a un fatidico manzo scuoiato (nel frattempo Mero è diventato vegetariano): cuore del mistero.
Guidando in rêverie, si accorge all’improvviso di essere arrivato a casa, a Bighorn: « Sugli altipiani cadeva una neve fine che offuscava delicatamente l’aria, una spolverata sottile, bella, pensò, una garza di seta» in un «deserto» ad alta quota ancora di grande incanto equoreo e rupestre. Assiderato dal vento e dalla neve, Mero non ritroverà mai il ranch delle sue origini, ammesso che fosse mai partito dal Massachusetts.

«L’inverno 1986-87 fu terribile»: comincia così «Purosangue», ambientato nel vasto bacino del Platte, quaranta gradi sotto zero. Un giovane del Montana, con stivali adeguati e nuovi di zecca, si sposta a sud nel Wyoming, sperando in un clima più sopportabile. Muore pietrificato in poche ore. Uno dei tre mandriani in perlustrazione è attratto dagli stivali, ma può liberarli dalle gambe solo segando il tutto. Il «purosangue» entra in scena in una locanda di fortuna, in cui si rifugiano i tre cowboy e dove dormono tutti insieme, ospiti e padrone, in compagnia del magnifico baio, appunto, un cavallo carnivoro. Le gambe provenienti dal Montana, scongelatesi nella notte, il mattino dopo sono sparite, ma anche l’impunito squartatore di manzi e di gambe se l’è svignata. La storia, per la verità più dettagliata e brutale, è sotto il segno della consueta iconografia del cowboy tracotante e di un coevo determinismo storico mirato alla sopravvivenza.

Dannati dal ranch
«Stai lì, in allerta» – così esordisce «La gente all’inferno vuole solo un sorso d’acqua»: e, ancora, «Terra minacciosa e indifferente: contro la sua mole immutabile le tragedie della gente non contano nulla, anche se i segni di disgrazia sono ovunque …». Dopo questo prologo disperato, una tragedia del 1908, che riguarda Isaak Dummire, detto (curiosamente) Ice, giunto in una cittadina del Wyoming, a trentaquattro gradi sotto zero. Pur di avere il lavoro di cowboy, Ice giura al capo del ranch di essere scapolo. La storia è lunga e intricata, ma basti dire che la permanenza dell’animalesco Ice nel ranch lo trasformerà in un allevamento di piccoli cowboy, dannati dalla vita (e dal ranch), mentre la luce del mattino continua ad inondare «l’orlo del mondo». Se credete a questo, dice il racconto alla fine, «potete credere in qualsiasi cosa».