Che la scrittura di Annie Ernaux serbi, alla maniera degli autori classici, una necessaria coerenza che può sembrare monotonia è riprova ulteriore Il ragazzo (L’Orma, pp. 58, € 8,00) uscito, unitamente al testo di tre interventi pubblici, nella al solito limpida versione di Lorenzo Flabbi. Si tratta di un racconto che risale al periodo culminante della scrittrice (1998-2000), steso in prima persona nei modi della perfetta simulazione autobiografica che le è tipica e si riferisce alla liaison intercorsa fra una donna cinquantenne e un ragazzo che ha trent’anni meno di lei. Tutto ovviamente li oppone (esperienza, cultura, amicizie, status, prospettive) ma ogni cosa viceversa li unisce nello spazio che intercorre fra la dedizione esclusiva dell’uno e la stupefatta ricettività dell’altra, come vivessero una duplice e sempre reversibile iniziazione nello spazio e nel tempo. Per colei che dice «io» il piacere è tale nella misura in cui riattiva zone inesplorate del vissuto, esperienze incognite o obliate e del partner, infatti, dice a un certo punto che «portava con sé la memoria del mio primo mondo».

Memoria è giusto la parola-chiave con cui la voce narrante asseconda il suo sguardo doppiamente retrospettivo, il quale recupera il passato (quello di lei ventenne, studentessa provinciale, un doppio del ragazzo stesso) nel momento in cui si distanzia dall’attuale rapporto e lo sente dileguare. Nel primo dei testi in appendice (un intervento letto il 5 luglio del 2016 a Roma, nella basilica di Massenzio per l’assegnazione del Premio Strega Europeo) Ernaux afferma perentoriamente di essere stata sempre invasa dai ricordi ma di possedere una memoria solo a partire dalla scrittura: «Intendo dire che ero attraversata da immagini slegate, fuggevoli, da luoghi e da volti, da singole scene. Scrivere significava attingere a questo serbatoio di ricordi per nutrire la trama di una storia inventata». Dunque, ai suoi occhi, ricordo e memoria stanno fra loro come parziale e totale, laddove il primo incarna il senso vivido e però statico dei dettagli percettivi mentre la seconda, anche se indeterminata, garantisce comunque la dinamica del flusso. È in un simile costante ballottaggio che si ordisce ogni scrittura di Ernaux, la cui originalità (ma si potrebbe senz’altro dire unicità) consiste nel segno particolare/universale dove si incontrano una storia totalmente individuata (quella di una ragazza del popolo divenuta, tramite la République e i suoi istituti, prima una insegnante e borghese agiata poi una scrittrice) con i decorsi di una classe invece popolata di individui in tutto subalterni e senza nome, quali suo padre e sua madre, da sempre deprivati di voce e destino.

Tutto questo è tanto più evidente e si impone al lettore quanto più la scrittura cerca la normalità della pronuncia e persino una naturalezza atona, tuttavia dissimulando la presa e la fisica adesione a una materia che coincide con la vita di lei intesa come vita di ognuno. Al riguardo, per Nicola Lagioia la massima posta della scrittrice è dare ai morti una seconda sepoltura e lo afferma (purtroppo unica presenza italiana) nella testimonianza contenuta nel collettaneo e monumentale Ernaux (dirigé par Pierre-Louis Fort, «Les Cahiers de l’Herne», pp. 319, € 33,00), che non solo presenta contributi di numerosi specialisti ma adduce una quantità di testi inediti, rari o dispersi dell’autrice, scambi epistolari e, davvero straordinarie, pagine di un Journal che data dal 1963.

La vigile presenza della scrittrice negli apporti come nell’ordinamento, di questo che appare fra i più ricchi dei longevi «Cahiers de l’Herne», è dichiarata. La scansione segue una trafila bibliografica nettamente ascendente (famiglia d’origine, percorso scolastico, matrimonio, figli, insegnamento, divorzio, esordio letterario, affermazione sociale e mediatica) ma la poetica e le scelte linguistico-stilistiche vengono aggregate per nuclei tematici.

Fondamentali i contributi relativi al suo essere donna nella società e al senso della Storia, in particolare due scritti: il primo, datato 2002 e uscito su «Le Monde», è il necrologio di Pierre Bourdieu, maestro venerato; il secondo risale al 1988 ed è un elogio, nientemeno, di Saint-Just e della Grande Rivoluzione in blocco. Per colei che ha scritto Il posto (1983) e Gli anni (2008), Bourdieu duplica nel ricordo il magistero di Simone de Beauvoir, è l’irruzione di una «presa di coscienza senza ritorno sulla struttura del mondo sociale» che replica quella già acquisita nella tarda adolescenza con la lettura di Le deuxième sexe: qui, dalla parte di Bourdieu, rammenta la lezione innanzitutto d’ordine linguistico, l’odio del maestro per l’ipocrisia e gli eufemismi quando i media parlano di «ambienti elevati e gente modesta» invece che di «dominanti e dominati».

E nella pagina di diario del 12 febbraio 2001, a proposito di venti bambini morti per incendio in uno stabile insalubre di Saint-Denis, interpreta il tono distaccato, asettico dei giornalisti televisivi: «Così i ragazzi asfissiati in un tugurio di Saint-Denis raggiungono gli sgozzati di Algeria nella stessa tacita indifferenza. Nei media, il tono della voce è un indicatore del livello sociale delle vittime».

Quanto alla icona di Saint-Just, i lettori sanno bene che l’engagement di Ernaux non proviene certo da un programma ideologico o tanto meno di partito ma procede direttamente dalla sua storia e dalla concreta esperienza di donna. Per lei l’universalismo dei valori di libertà e di giustizia sociale ha forma oramai di un a priori percettivo, mentre il riconoscimento del legame sociale, suo e altrui, è così immediato da sembrare istintivo. Non c’è pagina di Ernaux in cui la presenza di un oggetto, l’aprirsi di uno sguardo o la medesima grana della voce che pronuncia una frase non siano subito riconoscibili quali espressioni di un ceto o come autentici crismi di classe. Al culto statuale, elitario e classista delle destre, Ernaux oppone i valori rivoluzionari da cui è sorta la République dichiarando che ogni Ancien Régime è per lei lettera morta così come sono irrimediabilmente mute le zone aristocratiche della Recherche di Proust, anche se amatissimo. E scrive infatti in una pagina di cinque anni successiva alla pubblicazione de Il posto, che è il libro del suo definitivo e generale riconoscimento: «Anche adesso, sono certa di essere nata nel 1789. (…) Non intravedo, in tutta la storia di Francia, un equivalente dell’impresa inaudita dei rivoluzionari del 1789. Dopo di loro, il tempo va in folle. Dal suffragio universale alla scuola pubblica e obbligatoria, dal divorzio all’adozione del metro come unità di misura, nulla sembra poter sfuggire alla loro volontà di ri-creare il mondo».

La République della scrittrice non è certo la stessa delle élites che oggi ne rivendicano i valori nel momento in cui li negano ai subalterni che un loro antesignano e per giunta monarchico, Charles Maurras, si compiaceva di chiamare un secolo fa les sales méthèques, i luridi bastardi. Oggi molti insegnanti rendono di senso comune Les années e ciò inquieta i reazionari à la Alain Finkielkraut, che infatti ha commentato il premio Nobel 2022 con queste parole: «Tanto virtuosa ostinazione scredita per sempre l’Accademia di Stoccolma». Da che pulpito scagliati, di simili insulti Annie Ernaux sul serio dovrebbe gloriarsi.