Nell’ottobre 1960, per le Olimpiadi a Roma, «Vogue» americana pubblicava un servizio speciale dedicato alla moda italiana: le fotografie, di William Klein, mostravano le modelle sullo sfondo delle memorie classiche e dell’architettura barocca della città. Tre anni dopo, la stessa rivista dedicava una lunga inchiesta a Milano, mettendone in rilievo il carattere di capitale industriale e culturale d’Italia. Alla storia subentrava la modernità; e a Roma Milano. Dietro, invisibile ma inesorabile, la resa della politica all’economia.
Sulla svolta insiste ora una piccola ma accattivante ed efficace mostra alla Estorick Collection di Londra: The Making of Modern Italy Art and Design in the Early 1960s (a cura di Giuliana Pieri, fino al 7 aprile; catalogo con saggi della stessa Pieri, Clodagh Brooks e Florian Mussgnug, pp. 25, sterline 3,00; parte del più ampio progetto di ricerca Interdisciplinary Italy: Interart/Intermedia 1900-2020). La mostra ricostruisce perfettamente come l’invenzione della modernità italiana, legata al mito dell’efficientismo milanese contrapposto alla sonnolenza di Roma, sia prima di tutto determinata dallo sguardo americano, in un tempo in cui il piano Marshall foraggiava generosamente l’economia italiana alla sola condizione di tenere lontano tutto ciò che avesse sapore di socialismo e comunismo. Nel dicembre 1961, il punto di partenza della mostra, la rivista americana «Life» pubblicava un servizio intitolato Explosion in Life e dedicato alla nuova architettura modernista italiana nelle foto di Mark Kauffman: la stazione di Santa Maria Novella a Firenze (in verità un progetto fascista), il grattacielo Pirelli ideato e diretto da Gio Ponti a Milano e il Palazzo del Lavoro di Torino disegnato da Pier Luigi Nervi (in collaborazione con lo stesso Ponti e Gino Covre) diventavano i simboli di un’Italia che cambia, e che influenza il mondo, fino all’affermazione gloriosa che «l’Italia, nel giro di pochi anni, ha cambiato l’aspetto del mondo – le macchine, i palazzi, l’arrendamento e, soprattutto, le donne», con un riferimento sessista alla moda che difficilmente può resistere alle ombre del tempo. In quanto destinatarie della moda, e quindi consumatrici, le donne sono il primo target di un’America che sta costruendo la loro liberazione sulla capacità capitalistica di farsi soggetti compranti.
È questo capitalismo ideologico, che pervade un po’ tutta la fondazione dell’Italian style e del made in Italy negli anni sessanta, che la mostra mette bene in luce, forse in parte non del tutto consapevolmente: facendo dell’Italia il luogo-simbolo del rinnovamento, gli americani andavano all’inseguimento del mercato del nuovo, dove tutto ciò che è cultura e memoria può essere trascurato a favore di ciò che è innovazione e spettacolo. Si spiega così, ad esempio, la facile mitizzazione della Vespa come icona italiana fin dal film Vacanze romane di William Wyler, con Gregory Peck e Audrey Hepburn, che è addirittura del 1953, premio Oscar 1954, e che piaceva in Italia perché associava il Bel Paese al culto delle celebrities di Hollywood e piaceva in America perché rinnovava la tradizione del Grand Tour alla luce del mito americano. Italia terra vergine, su cui s’innestava più facilmente la sperimentazione di un’America tutta rivolta a costruire il suo impero economico e politico grazie all’ideologia dell’innovazione tecnocratica e futuribile.
Al centro della mostra c’è infatti l’inossidabile Lettera 22 dell’Olivetti, la macchina da scrivere disegnata da Marcello Nizzoli che fece sentire l’Italia all’avanguardia tecnologica mondiale, che l’Illinois Technology Institute scelse nel 1959 come il miglior prodotto in termini di design degli ultimi cento anni e che è entrata a far parte della collezione permanente del MoMA di New York. La sinergia tra industria ed estetica si esalta infatti nel design e nell’architettura, che fanno dell’Italia anche la culla del postmoderno, di lì a venire, ma già lì tutto in nuce. Le collaborazioni di Gio Ponti con Piero Fornasetti e Fausto Melotti rivelano l’importanza dello stile nella confezione del prodotto, sia esso destinato ad abitare lo spazio urbano o l’intimità domestica: il palazzo e l’arrendamento diventano simboli di un’Italia che sa vivere, perché ha superato il mito, tutto fascista, del classicismo rigoroso e ordinato per affacciarsi orgogliosamente nella modernità come protagonista, vitalisticamente e un po’ frivolamente.
Tutt’altro che incendiaria, quest’Italia del nuovo faceva convivere la sua tradizione estetica con l’apertura verso il mercato, nella consapevolezza che era il capitale anziché lo stato il suo interlocutore privilegiato: l’artigianato univa radicamento e investimento, così come il disegno univa culto formale e destinazione commerciale. Nasceva il mito dell’architetto come genio universale, sulla scorta di un modello di matrice rinascimentale, figura capace di sincretizzare sapere scientifico e cultura umanistica, a quel tempo ancora sostanzialmente divise: la sua abilità di creare a largo raggio, «dal cucchiaio alla città», come si espresse Ernesto Rogers, definiva l’intellettuale della modernità, interdisciplinare per natura, capace di attraversare senza problemi i confini accademicamente ancora rigidissimi tra arte, scienza e tecnologia. Quello che era interesse capitalistico, allargare il mercato, venne spacciato per processo di democratizzazione, allargare l’accesso a una vita più facile e comoda: le radici della perdita della differenza e della sinergia tra celebrity e massa sono tutte lì, e sono ancora in gran parte da studiare. La Vespa di D’Ascanio, la Lambretta di Pallavicino, la televisione portatile Algol 11 e la radio TS 502 di Zanuso e Scapper, sono tutte formazioni di compromesso tra aneliti democratici e concentrazioni capitalistiche: furono anni di entusiasmi, invenzioni e liberazioni, visti da dentro; ma anche, visti da lontano, di ipocrisie, inganni e strumentalizzazioni. Con un tocco di nostalgia per un mondo pieno di slanci, la mostra riesce tuttavia anche a far vedere come quello stesso mondo riuscisse sempre a mascherare l’omologazione, la subordinazione e il classismo con la retorica del progresso.
Il ruolo delle riviste di architettura, come «Domus», «Casabella» e «Abitare», è anch’esso decisivo, tra formazione del gusto e creazione di mercato. Un po’ di pop art, un po’ di futurismo, un po’ di metafisica: le radici dell’arte del Novecento trasposte nella dimensione divulgativa e commerciale dell’arte. Educazione della massa o costruzione del consumatore? Tutt’e due le cose, probabilmente, con gli intellettuali a guidare il popolo per continuare a detenere il potere.