Chiunque si sia cimentato in esercizi di storia dal basso conosce bene l’importanza cruciale degli archivi: è lì che bisogna andare a scavare se si vuole tentare di ridare corpo alle voci dei senza voce, è lì che bisogna indagare se si vuole sperare di sottrarre al rimosso le vies oubliées – il conio è di Arlette Farge, una che di archivi se ne intende – degli spossessati e degli sconfitti. Vero. E tuttavia, che cosa succede quando i rapporti si invertono? Quando gli sconfitti e i dimenticati di cui gli archivi ci parlano non sono gli altri ma siamo noi? È questa la prima, spiazzante sensazione che prende davanti al materiale che Ida Dominijanni, con montaggio sapiente, ha raccolto e orchestrato a partire dal suo repertorio di firma storica del manifesto.

2001. Un archivio (manifestolibri, pp. 280, euro 18, in ebook euro 9) è il titolo di questa operazione condotta sul filo sottile tra presente e passato. E l’odissea a cui ci invita è nel tempo più che nello spazio. Le lancette sono riportate indietro di vent’anni, a quell’inizio di terzo millennio che ha segnato – da qualunque lato la si voglia guardare, e ammesso che si abbia gli occhi per vedere – la soglia tra un prima e un dopo.

Colpisce il tempismo con cui l’autrice e i suoi interlocutori registrarono, quasi in presa diretta, il senso e le dimensioni di questo passaggio d’epoca. Colpisce il tesoro d’intelligenza politica che attorno agli eventi di quell’anno fatidico – Genova, le Twin Towers, e poi l’inizio della guerra globale infinita – si era venuto accumulando, nutrito dal pensiero e dalla pratica di un movimento che ancora affollava in massa le piazze. E colpisce però anche la coltre di stupidità sotto cui quel tesoro fu sepolto, il deserto di disinteresse in cui quell’intelligenza collettiva e preveggente chiamò inascoltata.

LEGGETE le venticinque interviste e gli svariati articoli che compongono il volume: non troverete una parola che non suoni straordinariamente profetica. Non c’è dubbio, avevamo ragione: gli accadimenti anche recentissimi di questo primo scorcio di secolo si sono incaricati di dimostrarlo.

E nonostante questo, o anzi proprio per questo, tanto più dolorosa e disperante è la consapevolezza della sconfitta che ti assale quando, davanti a una Kabul in fiamme, senti commentatori e pundits ripetere un già detto vecchio di vent’anni, con identica stolida sicumera.

Intendiamoci però: un tesoro resta un tesoro, e un tesoro sepolto è lì solo perché un giorno, magari prossimo, possa essere ritrovato. 2001 disegna allora la mappa necessaria per mettersene in caccia, e la affida – leggiamo nella dedica – «a chi vent’anni fa non c’era ancora».

A venire trasmessa, in questo simbolico passaggio di testimone, è innanzitutto una lezione di metodo, una pedagogia del sospetto. «Ambivalenza» è qui il termine chiave, la lente attraverso cui Dominijanni e le pensatrici e i pensatori da lei convocati (da Rosi Braidotti a Homi Bhabha e Slavoj Žižek, da Étienne Balibar a Judith Butler e Wendy Brown) scelgono di guardare allo scenario post-11 settembre. Leggere il vuoto tra le righe esibite del pieno, riconoscere l’impotenza dietro l’affermazione armata della superpotenza, scorgere la crisi delle categorie politiche classiche al di là della loro urlata e meccanica ripetizione: ecco la ginnastica a cui 2001 ci invita.

CERTO, NELLA GUERRA al terrore la logica amico/nemico, noi contro di loro, sembra trovare una spettacolare (e spettacolarizzata) conferma: ma, ricorda ad esempio Carlo Galli, la verità è che qui abbiamo a che fare con un nemico invisibile, deterritorializzato, interno e non esterno alle frontiere dello Stato – ammesso poi che parlare di «interno» ed «esterno», nello spazio globalizzato senza più un fuori, abbia ancora senso.

E del resto, che farsene di Hobbes e Schmitt quando, come scrive Dominijanni, «la pratica suicida dei kamikaze fa saltare il dispositivo della deterrenza che da sempre regola la convivenza» e spinge alla nascita del patto sociale?

Certo, nell’ostentazione muscolare dell’era Bush, l’imperialismo americano sembra aver raggiunto il suo apice: ma, segnala Toni Negri, non si tratta a ben vedere che di «un colpo di reni contrario e regressivo» rispetto alle tendenze di formazione dell’Impero, del tentativo disperato di riaffermare una centralità perduta in un mondo irreversibilmente multipolare (con quale successo ce lo dicono oggi, di nuovo, le cronache dall’Afghanistan).

Certo, l’unione sacra stretta all’indomani degli attentati attorno alle vecchie parole d’ordine identitarie di Dio, patria e famiglia sembra certificare la vittoria della secolare alleanza di fondamentalismo, nazionalismo e patriarcato: ma proprio la carica di violenza con cui quelle parole si è cercato di imporle – da ambo i lati del presunto conflitto di civiltà – non è che il sintomo del delirio panico scatenato dai processi di profanizzazione del sacro (si legga quanto dice qui Mario Tronti), di ibridazione e meticciamento delle identità (lo sottolineano con acume, tra gli altri, Jeffrey Schnapp e Paul Gilroy), di implosione del dominio maschile sotto i colpi della parola femminile e della rivoluzione femminista (si veda il bel dialogo con Carol Gilligan, e il denso saggio conclusivo di Dominijanni).

SI BADI BENE: scoprire il trucco, svelare la dimensione spettrale dei revenants identitari non significa negarne la formidabile efficacia. 2001 torna anzi a più riprese sul potere dei fantasmi. Che realtà e immagine, verità e finzione non possono essere separati con un colpo occamiano di rasoio – tanto più dopo che, con l’attacco alle Torri trasmesso in diretta tv su scala globale, l’immaginario pare essersi definitivamente installato «nella cabina di regia dell’evento»; che ogni accadimento gioca sempre una partita su più campi, non solo sul piano del reale ma anche su quello del simbolico; che il riduzionismo economicista fa un cattivo servizio al materialismo se pensa di poter tagliar fuori dall’explanans le economie morali consce e, soprattutto, inconsce: ecco una lezione evidentemente utilissima a chiunque voglia provare a comprendere qualcosa di questa nostra complicata congiuntura.

Perché una cosa è certa: se non mettessimo nell’equazione la forza terribile degli spettri identitari e delle reazioni d’ordine, nulla capiremmo del momento populista che abbiamo attraversato e stiamo forse ancora attraversando; se non tenessimo in considerazione il fatto che il virus (l’Aids e l’antrace ieri, il Covid-19 oggi) è sempre anche una metafora, saremmo infinitamente più sguarniti nel registrare gli effetti sociali e simbolici che la crisi pandemica ha avuto e continuerà ad avere.

ED ECCOCI COSÌ DI NUOVO proiettati sul presente. Pur nella sua tremenda letteralità – il punto è decisivo, come sottolinea Dominijanni nell’introduzione al libro – il coronavirus ha toccato un nervo della teoria politica scoperto già vent’anni fa dal virus allegorico del terrorismo.

Venne a galla all’epoca, e con palmare evidenza, l’insufficienza di un’ontologia e di un’antropologia fondate tutte sul pilastro della sovranità – individuale o collettiva, poco importa; e insieme la necessità – avvertita soprattutto, e non a caso, nel campo femminista – di un loro ripensamento nei termini di un soggetto relazionale, interdipendente, vulnerabile.

A distanza di vent’anni siamo ancora lì: il vecchio mondo è morto, ma continua a pesare come un incubo (come un fantasma) sul cervello dei vivi.

Quello che ci manca non è, scrive Dominijanni, «la finezza del concetto: manca il referente della pratica, la fiducia che davvero su questa base possa nascere qualcosa che si possa chiamare “politica”, l’individuazione di una figura antropologica nuova in grado di metterla al mondo e di farla camminare». E tuttavia, questo archivio è lì a ricordarcelo, nulla che nasca nasce mai da zero.