Sono profonde, le radici dell’odio. Perché di odio si parla, e da molto tempo. Sulla scalinata di Capitol Hill fumano le macerie di quella che una volta si chiamava politica. Invece di recitare la liturgia di una nascita, i parlamentari americani hanno celebrato un funerale.

Modificare geneticamente la democrazia americana ha richiesto anni e sforzi. Anni in cui il conflitto pubblico è diventato scontro privato, l’avversario un nemico, lo scopo della battaglia non più la sconfitta di un’idea ma di un essere umano.

La sua cancellazione, la sua delegittimazione. A costo di demolire, con l’uomo, anche l’istituzione che rappresenta. Donald Trump e il suo mob – termine poco traducibile che indica la folla eccitata e violenta – sono il prodotto di questi sforzi.

Nel marzo del 2011 un costruttore apparentemente pieno di soldi, star di un popolare reality show, su Fox News mise la faccia a queste parole: «Lui non ha un certificato di nascita. Può darsi che ne abbia uno ma c’è qualcosa sopra, forse il fatto che è musulmano, non saprei».

Lui era Barack Obama, 44esimo presidente degli Stati uniti. E Donald Trump si era appena iscritto ai birther, termine spregiativo che definiva i partecipanti alla prima moderna campagna di odio politico americano: i credenti alla nascita di Obama in Kenya, cosa che lo avrebbe reso ineleggibile. Circolava da anni, questa panzana. Sembrava niente. Forse era il primo passo di tutto.

Certo, odiatori professionisti si erano già presentati. Ancora oggi nominare Roosevelt nel profondo Sud è un modo sicuro di farsi cacciare di casa.

E negli anni ’90 i Clinton avevano scatenato lampi dello stesso eccesso: il piccolo balsero Elian Gonzalez restituito all’odiata Cuba, il suicidio del consulente finanziario di famiglia, l’investitura di Hillary a responsabile della riforma sanitaria – la (mala)femmina intrigante che suborna il marito… Ma erano ancora ingigantimenti, trattati da giornali e tv non ancora travolti dai social media e dalla loro inaudita capacità di produrre fake news.

Poi arrivò il Tea Party. Nato nel 2009 per tenere il governo alla larga dall’economia e per evadere in santa pace le tasse, il flessibile movimento capital-conservatore in qualche anno portò il conflitto al limite dell’odio puro. E con i Tea Parties si aggiunsero alla partita due rivoluzionari misconosciuti, i fratelli David e Charles Koch.

A capo di un conglomerato da 100 miliardi di dollari l’anno, i Koch misero un’inesauribile fortuna al servizio della loro destra: controllo limitato delle corporations, ovvio, guerra alle limitazioni ambientali (grazie a loro il climate change è diventato un’opinione), ricorso continuo alla tensione.

Con mezzo miliardo di dollari il Tea Party riconquistò il Congresso nel 2010 e i repubblicani riconquistarono il Senato nel 2014. Ma soprattutto i Koch trasformarono il finanziamento della politica in un opaco groviglio, e a un livello da cui non sarebbe più sceso.

Anche George W. Bush e Dick Cheney avevano terrorizzato gli Stati uniti con inesistenti armi di distruzione di massa, ma il loro non era ancora lo stato di tensione permanente in cui vive oggi la politica americana. E il genio del male si chiamava Karl Rove, il consigliori che fece vincere Bush jr intasando i seggi di referendum di destra (contro aborto, marijuana, immigrazione…) per attirare i conservatori renitenti – sciocchezze rispetto all’eversione manifesta di oggi.

Il partito democratico non si è accorto di nulla, salvando banchieri falliti e aggravando le diseguaglianze, celebrando la vittoria di Obama e un po’ di sanità pubblica ma battezzando ogni fenomeno come malessere passeggero. Invece era la nascita di una nazione.

Arruolatosi tra i birther, Trump scopre la delegittimazione e non si fermerà più. La prima volta nemmeno corre, appoggerà Mitt Romney. La seconda volta scopre che più grosse le spara, più consensi raccoglie.

L’essenziale è avere un grosso network alle spalle – e Fox coopera con entusiasmo. Consumarsi le dita su Twitter è il tocco finale. Qualche mese prima di novembre comincia a parlare di brogli: lo slittamento della politica a esercizio di delegittimazione si è compiuto. Certo, c’è da delegittimare un’elezione…

Il mob che ha travolto il Campidoglio arriva da qui. Nessun «sacro teppismo di eletta tradizione risorgimentale», per usare le parole di Pasolini. Per un intero anno il dipartimento della Homeland security proverà a convincere Trump a indagare sul terrorismo interno e sulle milizie Proud Boys, Bogaloo, Three Percenters e le altre: inutile, il fatto è che erano già suoi.

La chiamata alle armi dei mobster è stata fatta martedì mattina ma i preparativi erano apertamente in corso. Se Reddit chiude un forum, se ne apre un altro chiamato TheDonald in cui l’ordine è «Storm the Capitol».

In chat su Telegram, sul sito di Parler, su ogni nicchia di ultradestra la truppa trumpista si è data appuntamento, ha raccomandato l«equipaggiamento («carabina, fucile a pompa, coltelli e quante più munizioni»), ha indicato nemici («appendiamo Pence»), cioè chiunque abbia tradito Trump o l’America, che è lo stesso.

Lunedì la polizia di Washington aveva arrestato il leader 31enne dei Proud Boys, Enrique Tarrio, ma i suoi sodali hanno salito la scalinata indisturbati. Contro di loro 340 soldati della Guardia nazionale, dei 2.700 effettivi.

Per affrontare gli incendiari antipatriottici di Black Lives Matter, in giugno Trump aveva voluto a Washington 5mila soldati, che avevano efficientemente gassato e manganellato a più non posso quando il presidente volle farsi qualche foto davanti a una chiesa, Bibbia in mano.

Mentre il Campidoglio veniva invaso, deputati e senatori si sono buttati sotto i banchi e poi sono fuggiti tutti. Nel 1981, quando il colonnello Tejero entrò sparando alle Cortes spagnole, in tre rimasero fermi ai loro posti. Adolfo Suarez era un vecchio democristiano, Santiago Carrillo un vecchio comunista, Gutierrez Mellado un vecchio generale.

In qualche caso i politici si delegittimano da soli.