La bolla economica che contraddistinse la seconda metà degli anni ottanta del secolo scorso in Giappone è ancora oggi uno dei periodi, nel bene e nel male, che più sono ancorati nell’immaginario collettivo nipponico. Spesso viene usata come pietra di paragone per giudicare il tempo presente, un breve lasso di tempo in cui tutto sembrava possibile, naturalmente si trattò anche di una bolla percettiva che con il passar del tempo è stata assunta quasi a mito. Detto questo, è innegabile però che in quegli anni, anche grazie alla spinta economica, ci fu un’ulteriore apertura del paese asiatico, con un interesse per la produzione della cultura popolare e delle arti visive verso e dal Giappone. Uno dei film che forse meglio di altri riesce a rendere più vivido il ricordo di quell’epoca, uno dei possibili punti di vista sul periodo naturalmente, è Tokyo Pop, una coproduzione nippo-americana realizzata nel 1987 ed uscita l’anno successivo, quando partecipò anche al festival di Cannes. Si tratta di un film leggero e senza particolari pretese diretto dall’artista statunitense Fran Rubel Kuzui, regista di Buffy l’ammazzavampiri nel 1992, e che racconta la storia di Wendy una giovane e bionda ragazza aspirante musicista, che insoddisfatta decide improvvisamente di lasciare gli Stati uniti per cercare «l’America» a Tokyo.

QUI INCONTRA un giovane giapponese, interpretato dal musicista Yutaka Tadokoro, di cui si innamora e con cui forma un gruppo musicale rock. Dopo più di tre decenni in cui il film sembrava essere sparito dalla circolazione, la casa di distribuzione fallì dopo poco tempo, in questi ultimi tempi Tokyo Pop è stato riscoperto dalla «coscienza cinefila» tanto che una proiezione speciale è stata organizzata anche a New York. La trama del film – che segue le vicende della giovane ragazza alle prese con una città ed una cultura a lei completamente estranea, sembra abbia ispirato Lost in Translation, anche se in realtà il lungometraggio di Sophia Coppola è dceicsamente diverso per tono ed ambientazioni. L’atmosfera generale di Tokyo Pop è molto leggera e ricca di energia positiva, la grande città non sembra oppressiva, aliena e composta di solitudini, ma come ha dichiarato la stessa regista in una recente proiezione, in quegli anni Tokyo era davvero in fermento.
Non era raro infatti incontrare nei vari locali notturni industriali o imprenditori in cerca di progetti artistici da sponsorizzare al solo scopo di sgravare le tasse, tanto era il denaro in circolazione. Certo di lì a poco tutto questo luccicare di soldi e di (false) speranze si sarebbe sgonfiato, lasciando sulla strada le macerie, gli anni novanta con tutti i suoi problemi economici e sciali. Resta il fatto che questa energia, vacua e superficiale se vogliamo ma pur sempre energia, è assai palpabile nel film che, al di là del suo valore intrinseco, resta un documento del periodo molto prezioso.

QUESTO ANCHE perché la pellicola è tutta girata in luoghi reali, le strade con i giovani rockabilly, i piccoli club dove vediamo ed ascoltiamo gruppi giapponesi sconosciuti, i love hotel e le strade affollate della capitale con le immancabili insegne al neon. La storia riflette in qualche modo, forse marginale, anche la storia personale della regista, sposata nella vita reale con un uomo giapponese con cui negli anni ha spesso lavorato a cavallo fra i due paesi. Forse per questo motivo, pur non essendo un capolavoro, Tokyo Pop è una piacevole visione e non scade quasi mai negli stereotipi dello straniero che visita il Sol Levante per la prima volta, anzi la narrazione e le vicende raccontate sono genuinamente divertenti, qui e là critiche di alcune abitudini della società nipponica, ed i due protagionisti risultano spesso autoironici.

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