A pochi giorni dal primo luglio indicato da Benyamin Netanyahu come la data di inizio dell’«estensione della sovranità» – l’annessione unilaterale a Israele – su porzioni di Cisgiordania, l’incertezza regna sovrana intorno ai passi che muoverà il premier israeliano. Lo Stato ebraico procederà all’annessione del 30% della Cisgiordania palestinese sotto occupazione – gli insediamenti coloniali e la Valle del Giordano – oppure sceglierà una annessione «soft», limitata a tre principali blocchi di colonie (Gush Etzion, Ariel e Maale Adumim)? Non c’è ancora una risposta a questo interrogativo. In realtà Netanyahu ha le idee ben chiare. Ma deve fare i conti con un ostacolo serio.

 

Non si tratta degli ammonimenti sulla «violazione del diritto internazionale» che gli ha rivolto il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres o dell’opposizione al suo piano dell’Unione europea e neppure delle minacce della Giordania. Il premier sa che nessuna di queste parti farà un passo serio per fermarlo. E ignora le proteste di Abu Mazen e dell’Autorità nazionale palestinese, così come le minacce di guerra lanciate ieri da Hamas. Il suo vero problema sono le esitazioni di Washington. Donald Trump con il suo piano Accordo del Secolo gli ha aperto la strada verso l’annessione e ora tarda a dargli il via libera chiaro e definitivo alla «estensione della sovranità». La rappresentazione delle idee poco chiare alla Casa Bianca e al Dipartimento di stato è avvenuta ieri. Kellyanne Conway, consigliere di Trump, ha parlato di un annuncio imminente del presidente sull’annessione della Cisgiordania. Poi in serata un funzionario Usa ha informato la Reuters che le deliberazioni all’interno dell’Amministrazione si sono concluse senza una «decisione finale» sui tempi e le mappe dell’annessione. La decisione richiede ancora del tempo. Quindi niente annuncio di Trump.

 

Si attende perciò nei prossimi giorni l’arrivo in Israele di Avi Berkowitz, l’assistente di Trump per i negoziati internazionali, che continuerà i colloqui. Al momento si sa solo che gli Usa non chiudono le porte a un’annessione ampia. Ma Jared Kushner, genero e inviato di Trump in Medio oriente, secondo la stampa israeliana, teme che una annessione troppo ampia e rapida ucciderebbe la residua speranza di coinvolgere nell’Accordo del Secolo anche i palestinesi che sino ad oggi lo hanno respinto con forza. Netanyahu invece vorrebbe correre. L’annessione intende realizzarla entro la fine dell’estate, di sicuro prima delle presidenziali Usa che lo stretto alleato Trump, sondaggi alla mano, rischia di perdere. L’avversario del presidente, il Democratico Joe Biden, è un amico di Israele ma è contro le mosse unilaterali di Netanyahu. Biden inoltre non può non tenere conto del dibattito intenso nel suo partito sul Medio Oriente, Israele, i palestinesi e la politica estera statunitense in generale.

 

In questo clima Netanyahu ha accolto con preoccupazione l’esito delle primarie democratiche a New York dove l’afroamericano Jamaal Bowman ha battuto Eliot Engel, potente presidente della commissione esteri della Camera che per 30 anni ha strenuamente difeso e sostenuto le politiche dei governi israeliani di qualsiasi colore. Bowman al contrario appoggia i diritti del popolo palestinese e va ad aggiungersi alla nutrita pattuglia di nuovi rappresentanti democratici del Congresso – tra i quali donne divenute simbolo di lotta per i diritti negli Usa e all’estero come Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Rashida Tlaib, Ayanna Pressley e Julia Salazar – che contestano l’appoggio incondizionato offerto per decenni a Israele dall’establishment tradizionale del partito. Senza dimenticare il peso che il senatore Bernie Sanders, rivale principale di Joe Biden alle primarie per le presidenziali e oppositore dichiarato delle politiche di Israele, mantiene nella base del partito Democratico.

 

E nei prossimi giorni, proprio quando Netanyahu, potrebbe dare il via all’annessione, la Corte penale internazionale comunicherà la sua decisione sul possibile avvio di una procedura di indagine per crimini di guerra commessi da Israele (e da Hamas) nei territori palestinesi occupati, con una attenzione particolare su quanto è accaduto nel corso delle offensive militari contro Gaza.