In qualsiasi governo israeliano, dal 1948 ad oggi, due ministeri, difesa ed esteri, sono centrali, più importanti di qualsiasi altro. E nel nuovo esecutivo di «emergenza nazionale» presentato due giorni fa alla Knesset dal premier Benyamin Netanyahu – dopo tre elezioni in 11 mesi e uno stallo politico durato un anno e mezzo  – questi due dicasteri sono andati a Benny Gantz e Gabi Ashkenazi, rispettivamente capo e numero due del partito Blu Bianco. Nel programma del nuovo governo, con 36 ministri di cui otto donne (è il più ampio della storia di Israele), la crisi economica e la disoccupazione alle stelle, causate dalla pandemia, sono tra i primi punti. Ma non hanno la priorità sull’espansionismo territoriale di Israele, perno dell’accordo trovato nelle scorse settimane da Netanyahu e Gantz, un tempo nemici giurati e ora partner di governo. L’identità di vedute è ampia sull’annessione unilaterale a Israele di larghe porzioni di Cisgiordania palestinese. Le differenze riguardano solo i tempi di attuazione del piano.

 

A confermarlo con parole di pietra è stato Gabi Ashkenazi. «Il presidente Trump ci ha presentato un’occasione storica per forgiare il futuro dello Stato di Israele per i prossimi decenni», ha detto ieri nel suo primo discorso da ministro degli esteri, riferendosi al suo “Piano del secolo” presentato a gennaio da Donald Trump. Quel progetto, ha aggiunto Ashkenazi, «rappresenta una pietra fondamentale significativa» per il Medio oriente. Poi, smarcandosi in parte del discorso messianico pronunciato domenica da Netanyahu, ha assicurato che Israele si sforzerà di portare avanti il piano della Casa Bianca «in maniera responsabile in cooperazione con gli Stati Uniti, nel contesto comunque degli accordi di pace e degli interessi strategici dello Stato di Israele». Quindi ha detto di attribuire «grande importanza al rafforzamento dei legami strategici con i paesi che hanno sottoscritto con noi accordi di pace, l’Egitto e la Giordania. Sono gli alleati più importanti nell’affrontare le sfide regionali».

 

La distanza tra Netanyahu e i leader di Blu Bianco è solo su questo: il primo ministro minimizza la rabbia di Re Abdallah di Giordania – alleato di Israele nelle questioni di sicurezza – che da mesi ripete la sua netta opposizione al piano israeliano (lo considera una minaccia diretta alla stabilità del suo regno), Ashkenazi e Gantz invece vogliono procedere con il freno a mano tirato. In modo da attenuare l’impatto del passo unilaterale – comunque da fare – per evitare uno scontro con Amman e per non alimentare le motivazioni di quei paesi dell’Ue che ipotizzano sanzioni contro Israele. Una lenta marcia volta a tutelare i rapporti con gli alleati arabi ed europei ma che non comprende alcuna considerazione per i palestinesi che subiranno  il piano di annessione.

 

I palestinesi vengono sistematicamente ignorati. E non per il rifiuto secco che oppongono al piano Trump che assegna loro e solo a certe condizioni uno staterello vassallo e senza sovranità. Dietro c’è il disconoscimento totale del diritto dei palestinesi alla libertà e alla piena autodeterminazione. Pesano inoltre l’impotenza e inadeguatezza alla sfida posta dal piano di annessione dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), priva di appoggi concreti. Oggi la leadership dell’Anp si riunisce per decidere contromisure all’annessione. Intorno al meeting regna un profondo scetticismo. La base del partito Fatah, guidato dal presidente Abu Mazen, spinge per una posizione finalmente più ferma e per l’adozione per provvedimenti concreti, a cominciare dall’annullamento degli accordi sottoscritti con Israele dal 1993 in poi e alla fine (tante volte annunciata e mai realizzata) della cooperazione di sicurezza con

Ali Dawabsheh con i genitori Saad e Reham

l’intelligence israeliana. Ma ai vertici del partito Abu Mazen e parte del suo entourage frenano e sperano che le proteste dell’Ue, dell’Onu e della Giordania convincano Netanyahu a fare retromarcia. Non avverrà. L’annessione rappresenta l’eredità politica del premier di destra e non lo fermerà neppure il processo che comincia il 24 maggio in cui dovrà difendersi dall’accusa di corruzione.

 

Sullo sfondo c’è la vicenda del colono ebreo Amiram Ben Uliel, riconosciuto colpevole di omicidio. Nel luglio 2015 Ben-Uliel lanciò un ordigno incendiario in una casa del villaggio palestinese di Duma uccidendo un bimbo di 18 mesi, Ali Dawabsheh, e i suoi genitori Saad e Reham. L’unico sopravvissuto è stato il piccolo Ahmad, oggi 8 anni, che porterà per sempre sul suo corpo i segni di gravi ustioni. La sentenza si conoscerà il 9 giugno.