Merita di essere conosciuta la vita di Annemarie Wolff-Richter, psicologa infantile nata in Germania il 27 luglio del 1900 e morta nel campo di concentramento di Jasenovac, in territorio croato, nella primavera del 1945.

A riempire il vuoto arriva la pubblicazione di una biografia in lingua tedesca Mit dem Kinderheim auf der Flucht (un Kinderheim in fuga) di Ludwig T.Heuss e Marina Sindram, edizioni Schwabe Verlag. Fu una donna coraggiosa, Annemarie Wolff-Richter, una studiosa e anche una sognatrice. I bambini erano la sua grande passione («sono una chioccia», si descrive in una delle ultime lettere poco prima della morte). Su una pietra d’inciampo al numero 53 di via Oranienburger, a Berlino, è inciso il suo nome: è la casa a due piani dove sorgeva il Kinderheim che diresse per lunghi e felici anni.

Annemarie nacque il 27 luglio del 1900 nella Bassa Slesia da una famiglia di commercianti di spezie. Frequentò il liceo nella sua città, Breslavia, oggi in territorio polacco, e una volta diplomata si trasferì a Berlino per continuare gli studi. Nella capitale conobbe Fritz Künkel, allievo di Alfred Adler. La psicologia individuale la conquistò subito e nel 1926 cominciò a lavorare.

Sono gli anni della Repubblica di Weimar e Berlino è una delle capitali europee della psicologia e della psicoanalisi. Il primo Kinderheim aperto da Annamarie Wolff-Richter si trovava a Hermsdorf, area a Nord della capitale. Ma era troppo piccolo, così alla fine dello stesso anno, si trasferì con i bambini nella casa di via Oranienburger, una palazzina bifamiliare dipinta di giallo a Frohnau, sobborgo di Berlino. La casa di Frohnau accolse fino a 40 bambini e ragazzini contemporaneamente. Le età andavano dai 5 ai 10 anni, alcuni erano anche più grandicelli. Fra di loro, c’era chi restava per anni, chi solo per qualche mese.

La psicologa sognava una società che non emarginasse i più deboli e facesse affidamento nella comunità, seguendo gli insegnamenti di Adler. Nel Kinderheim si viveva insieme, senza barriere di alcun tipo, fianco a fianco «fratelli» e «sorelle» di età diverse, ragazzini «disadattati» inviati dai servizi sociali accanto a bambini della cerchia di conoscenti di Annemarie Wolff-Richter, progressisti che ritenevano il concetto della famiglia borghese superato.

Molti suoi amici erano ebrei, pur non essendolo lei. La piccola Giovanna, ospite del Kinderheim dal «929 al 31 era la figlia di Josef Strich, giornalista e membro della direzione del Partito comunista tedesco, e della pittrice Frieda Guttmannovà. Peter Nelken, compagno di giochi di Giovanna, era il figlio di Dinah Nelken, sua grande amica.

Libertà, ideali, sperimentazione: il Kinderheim di Annemarie Wolff-Richter era, in buona sostanza, un tipico prodotto della Repubblica di Weimar. Ma a partire dagli anni Trenta a Berlino, con l’ascesa del partito nazista, il clima politico e sociale cambiò radicalmente. Il 5 marzo del 1933, il giorno delle elezioni farsa, Annemarie scrisse all’ex marito Helmut Wolff parole che già lasciavano intravedere l’abisso: «Oggi si vota. Perché? È assolutamente inutile». Seguiva la raccomandazione: «Stai attento con le lettere». E sulla sua esperienza educativa aggiungeva: «Strano che continuiamo ad esistere. Nonostante tutto, ci sposteremo a Wannsee». Ormai semiclandestina, la comunità di bambini si spostò da Frohnau a Wannsee, periferia sudovest di Berlino: era il 18 marzo del 1933 e i libri di Freud e di Adler saranno bruciati dai nazisti nel grande rogo del 10 maggio dello stesso anno.

In quei mesi, la casa dei bambini di Wannsee venne chiusa su ordine della Gestapo, e Annemarie Wolff-Richter fu costretta a traslocare di nuovo, stavolta in una villetta nel sobborgo di Zehlendorf.

Nel novembre del 1936 la Gestapo la arrestò. Dalla carcerazione preventiva, la psicologica riuscì a far arrivare all’ex marito un «kassiber», un biglietto segreto. «I giorni qui non sono facili – scriveva -. Spero che sia chiaro che il mio lavoro è a favore dei bambini e non ha fini politici. Lo sai anche tu, e spera con me che io possa essere di nuovo disponibile per nostra figlia e il lavoro. Lascerò Berlino, per dare un taglio netto».

In qualche modo Annemarie Wolff-Richter ce la fece e uscì di prigione, fuggendo dalla Germania nazista. Nel 1937 si stabilì con la figlia Ursula in Jugoslavia, dove l’aspettava il nuovo compagno, Erwin Süssmann. Portò con sé anche una dozzina di ragazzini, minori affidati a lei perché orfani o perché in Germania avrebbero corso gravi pericoli, in quanto ebrei o figli di oppositori politici del regime. A Zagabria ebbe contatti con intellettuali di sinistra, tra cui il medico Beno Stein nel cui studio circolavano, fingendosi pazienti, esponenti del Partito comunista clandestino.

Il 6 aprile del 1941 la Wehrmacht invase la Jugoslavia, e in soli undici giorni l’esercito jugoslavo si arrese. Quasi subito, Wolff-Richter perse il suo compagno Süssmann: si era presentato alla polizia obbedendo all’ordine rivolto a tutti gli ebrei immigrati dall’estero per il controllo i documenti. Sarà condotto nel terribile lager di Jasenovac, il più grande campo di sterminio dei Balcani, da cui non tornerà.

Rimasta sola, Annemarie cercò di aiutare come poteva la Resistenza, consegnando lettere e incaricandosi di commissioni. Con grande coraggio, continuò ad accogliere e salvare bambini. Nel Kinderheim clandestino vivevano piccoli jugoslavi, ebrei, figli di antinazisti fuggiti dalla Germania. La casa rifugio di Zagabria ospitava anche due ragazzini disabili e un paio di bimbi di due anni e mezzo appena. Nell’ottobre del ’43 Annemarie Wolff-Richter inviò una lettera alla madre di uno dei suoi protetti: «Siamo al dunque. L’inverno ritarderà gli avvenimenti ma in primavera sarà definitivo. Non è rimasta, in nessun modo, la possibilità di muoversi, a parte forse con tanti, tanti soldi. Nella mia condizione di chioccia con numerosi piccoli non si può pensare che a resistere e ad aver fortuna». Ma non la ebbe, quella fortuna: la polizia croata fece irruzione nell’appartamento e la catturò. Furono presi anche due ragazzi, i più grandi. Era il 15 febbraio del 1944. La psicologa fu accusata di essere un’ebrea con documenti falsi. A fatica, dopo qualche giorno, riuscì a dimostrare la sua identità e fu rimessa in libertà.

Il secondo arresto, nel 15 luglio ‘44, avrà invece un esito tragico. Ursula stava già sulla via di casa quando un amico la mise sull’avviso: la madre era stata portata via e l’abitazione svuotata. Stavolta, la polizia ustascia accusò Wolff-Richter di attività «politicamente dannosa»: ai croati erano arrivate informazioni dalla Germania sull’arresto del ’36. Dopo alcuni mesi di carcerazione a Zagabria, nell’inverno ’44-’45, la psicologa fu trasferita nel lager di Jasenovac.
Ursula cercò aiuto per la madre nella chiesa cattolica, attraverso un prete vicino all’arcivescovo di Zagabria Alojzie Stepinac, ma si sentì rispondere che lei non conduceva il Kinderheim secondo la carità cristiana, che era comunista e aveva accolto figli di compagni della sua fede politica. Gli ultimi contatti tra Annemarie e la figlia sono rappresentati da una cartolina spedita da Jasenovac. Quando Ursula le mandò l’ultimo pacco, il 26 aprile del ’45, probabilmente sua madre era già morta, non è noto se di stenti, di malattia o deliberatamente assassinata. Riuscì però a mettere in salvo i documenti del Kinderheim, le foto, gli appunti di studio della madre: sono gli scritti attraverso i quali oggi è stata ricostruita l’intera vicenda. Una storia che apre uno squarcio su un’epoca di indicibili sofferenze ma anche di grandi eroismi.