«Intrappolati» insieme dentro una macchina per una giornata intera, un padre, Abu Shadi, e suo figlio Shadi attraversano Nazareth in lungo e in largo per consegnare personalmente gli inviti al matrimonio della sorella di Shadi – il motivo del suo ritorno dall’Italia, dove vive ormai da tempo. A interpretare i due protagonisti di Wajib – Invito al matrimonio, il terzo film di Annemarie Jacir (in sala dal 19 aprile) sono padre e figlio nella vita reale: Mohammed e Saleh Bakri, quest’ultimo attore anche dei film precedenti della regista: Salt of this Sea e When I Saw You.

La loro «avventura» on the road li obbliga a confrontarsi con le ferite della loro famiglia, le loro diverse visioni del mondo, e a scontrarsi sulla scelta di Abu Shadi di invitare al matrimonio anche il «supervisore» israeliano della scuola dove insegna – che vive nell’insediamento israeliano che dalle colline «incombe» sul ghetto palestinese di Nazareth.

Da dove viene la storia di «Wajib?»
Annemarie Jacir: Mio marito è di Nazareth, e quando sua sorella si stava per sposare ha dovuto accompagnare il padre a consegnare gli inviti, compito dei maschi della famiglia. È una tradizione praticata da tutti a Nazareth, che mi interessava molto. Così per cinque giorni li ho seguiti, e dal sedile posteriore della macchina ho cominciato a pensare alla storia di un padre e di un figlio con un rapporto teso. Due persone che si amano molto ma nella vita hanno fatto scelte diverse. La macchina incarna la loro relazione con la città: Shadi ci si sente intrappolato, mentre suo padre ha un rapporto molto più nostalgico sia con la macchina di famiglia che con la città.

Il rispetto della tradizione ha una declinazione molto importante nella storia del film, lei ha detto che è come una forma di resistenza.
AJ: I personaggi sono palestinesi che vivono in Israele e quindi si aggrappano alla loro identità. Per questo danno un valore ancora maggiore alle tradizioni, che in parte li definiscono. E vivono anche la contraddizione di abitare in un posto che non li vuole: ancora oggi i politici israeliani parlano di trasferirli. Vivono nel loro paese, nella loro patria, ma sono invisibili, o meglio il governo li ha resi invisibili.

L’unico personaggio israeliano del film rappresenta un’istituzione governativa che controlla le scuole arabe.
Nelle scuole palestinesi esistono davvero delle persone con il compito di controllare cosa si insegna, e perfino ciò che viene detto, e di approvare tutto il personale. Il Ministero dell’Istruzione israeliano ha infatti stabilito che si sono argomenti che non possono neanche venire menzionati, come la Nakba o l’intera Storia palestinese. È un vero e proprio sistema di «spionaggio»: chiunque esprima idee politiche o nazionaliste viene segnalato e interrogato.
Saleh Bakri: Il loro intento è plasmare dei palestinesi che non sappiano nulla della loro Storia, della loro cultura. A me per esempio non è stata insegnata la Bibbia né il Corano, ma solo la Torah. E fuori dagli istituti va appesa la bandiera israeliana, pena la perdita delle sovvenzioni da parte del Ministero.

In «Wajib» l’oppressione israeliana è onnipresente ma invisibile.
AJ: Non è quel tipo di occupazione evidente: a Nazareth non ci sono i check-point, non c’è il muro. Inoltre, come Haifa, almeno esiste ancora: centinaia di altri villaggi sono stati rasi al suolo. Solo una piccola minoranza della popolazione è riuscita a restare, e come si vede nel film vive in dei ghetti. È quell’aspetto dell’occupazione di cui non si parla: rispetto a quello che succede a Gaza e in Cisgiordania c’è meno consapevolezza di quei palestinesi che vivono in un posto che li rifiuta.

Impossibile non pensare al massacro di questi ultimi giorni a Gaza.
SB: Il sentimento principale è l’impotenza. L’ultima volta che sono stato a Gaza, un paio di anni fa, hanno sparato dagli elicotteri a delle persone che stavano manifestando pacificamente per strada, uccidendone circa 12. La violenza sta crescendo in modo esponenziale: specialmente dopo le cosiddette primavere arabe non ci sono più limiti a ciò che possono fare.
AJ: Ogni giorno che passa è sempre peggio. Ma io comunque ho speranza, proprio grazie alle persone che a Gaza ancora riescono a svegliarsi tutti giorni e fare qualcosa, come andare a protestare al confine per urlare che sono esseri umani.