Il festival internazionale di film d’animazione più atteso dell’anno mantiene ancora qualche distanza, come tutti del resto, ma riapre le sale e la città. Seppur con le dovute precauzioni, Annecy rilancia un po’ in presenza, un po’ ibrida con programmi (da lunedì 14 a sabato 19) e mercato (Mifa, 15-18) all’altezza dei suoi sessant’anni di vita. La manifestazione in Alta Savoia ospita innanzitutto l’Africa, a cui dedica un tributo speciale a partire dal fantasmagorico manifesto illustrato da Jean-Charles Mbotti Malolo, fra l’altro realizzatore del film Make it Soul presentato tre anni fa a Annecy. Sprizza allegria e gioia di vivere la figura colorita in salopette e sneakers con i capelli sparati in ogni dove, danzante libera e circondata dal lago sotto un cielo policromo sul finire del giorno.

«Ho sentito la necessità di realizzare questo poster su carta, forse per spingermi a ritornare a una forma artistica più tradizionale su una base quotidiana, ma anche perché gli schermi hanno occupato ancora più spazio nelle nostre vite da quando ha avuto inizio l’attuale crisi sanitaria» – spiega Mbotti Malolo – «ho mantenuto come linea guida la pantsula, un ballo tradizionale sudafricano che simboleggia la visione moderna che ho dell’Africa. L’ho voluto collegare a un personaggio particolare: una donna più anziana, indipendente, libera e gioiosa, che si gode i raggi del sole riflessi sul lago».

Energia vitale e colori sono, infatti, le coordinate artistiche del lionese Jean-Charles, 37 anni, diplomatosi nel 2007 all’École Émile Cohl con il film Il Cuore è un Metronomo, poi premiato come miglior film d’esordio al festival di Hiroshima. Al disegno affianca la danza, tanto da unirsi alla compagnia di ballo Stylistik e dal connubio tra le due discipline, assieme all’apprendimento del linguaggio dei segni, scaturisce il suo secondo pluripremiato corto The Sense of Touch (2012). Per restare nell’ambito dell’animazione, il suo già citato ultimo film Make It Soul, con la grafica dell’illustratore e fumettista Simon Roussin, è un tributo all’essenza della musica afro-americana di Solomon Burke e James Brown. È stato candidato per il César come miglior corto animato 2020. Attualmente sta lavorando su una serie di documentari ibridi (animazione e riprese dal vero).

Della sezione dei lungometraggi in competizione sono sicuramente attese alla prova della durata estesa due notevoli animatrici di corti ampiamente apprezzati e premiati nei festival. La céca Michaela Pavlátová, già vincitrice di Cristallo nel 2012 con l’esilarante e erotico Tram, esordisce nel formato lungo con La mia famiglia afgana (My Sunny Maad). È la storia di Herra, giovane donna ceca innamoratasi dell’afgano Nazir, che non ha la minima idea della vita che l’attende nell’ Afghanistan post-talebano, né della famiglia nella quale sta per integrarsi. Altri personaggi comprendono un nonno liberale, un intelligentissimo bambino adottato e Freshta, che farebbe qualunque cosa pur di fuggire dal controllo violento del marito. Prodotta dalla francese Sacrebleu con musiche di Evgueni Galperine e Sacha Galperine, l’opera di Pavlátová – da sempre attenta alla sincronizzazione fra immagini e colonna sonora- si annuncia come toccante storia piena di sfumature e sottigliezze sulla condizione femminile nell’Afghanistan contemporanea.

L’altra artista a presentare il suo primo lungometraggio è Florence Miailhe, in gara con La Traversée (La traversata). Ne ricordiamo i precedenti film corti, realizzati con la calda estetica e tecnica della pittura su vetro, quali Au premier dimanche d’août (Alla prima domenica d’agosto, César 2002 come miglior cortometraggio) e Conte de quartier (Racconto di quartiere, 2006). Attenta a studiare dettagli, ambienti e personaggi –si tratti del villaggio di provincia in festa del primo o del contesto urbano del secondo- Miailhe sa rendere atmosfere e suggestioni di pochi attimi con grande efficacia raffigurativa. Con le stesse tecniche e sensibilità ha realizzato La Traversée che racconta della fuga forzata di una famiglia dal paesello saccheggiato di notte. I due figli maggiori, Kyona e Adriel vengono ben presto separati dai genitori e costretti ad affrontare la via dell’esilio da soli. S’imbarcano in un eroico viaggio che li trasporta dall’infanzia all’adolescenza in cerca di riparo, pace e la speranza di trovare rifugio e la famiglia. Attraversando un continente devastato dalla guerra e dalla persecuzione dei migranti, i fratelli devono affrontare sfide tremende prima di poter raggiungere la meta ambita: la libertà in un mondo nuovo.

Di bambini che corrono per la sopravvivenza ci narra anche il corto Maman (Mamma, 9’) della giovane autrice francese Kajika Aki Ferrazzini. In un mondo distopico costantemente videosorvegliato, i ricordi possono permetterci di sognare il futuro. Il festival di Annecy da sempre fa del cortometraggio animato il suo tratto distintivo, anche se con gli anni il formato lungo ha allargato significativamente i suoi spazi. Così resta ancora un ottimo osservatorio per quanto di nuovo e rigenerante nasce dalle scuole di animazione (con i suoi specifici programmi di film in concorso), dai paesi emergenti, da giovani generazioni di autori e autrici, da esperimenti e poetiche originali e creativi che, come visto, gettano le basi per stili e linguaggi inediti non stereotipati anche nelle più complesse produzioni di lungometraggi. Ritroviamo quindi autorevoli e affermati nomi di questo universo apparentemente minore, familiari invece agli habitués dei festival, quali Joanna Quinn e Joan Gratz.

Indipendente modellatrice di plastilina, la statunitense Gratz presenta No leaders please, adattamento in poco più di un paio di minuti dell’omonimo titolo di Charles Bukowski. Dieci anni fa era nella selezione ufficiale con la sua versione in stop motion della poesia romantica di Samuel Coleridge Kubla Khan. Da parte sua la britannica Quinn propone nel suo riconoscibile stile schizzato al carboncino con qualche pallida sfumatura di matita colorata Affairs of the Art. Memorabile per titoli quali Girls’ night out (1986) con la sua protagonista impiegata sovrappeso e non particolarmente affascinante Beryl, Quinn riporta sullo schermo il suo personaggio collocato in un interno familiare nevrotico e ossessivo fra arte del disegno e cuore di mamma (nella pronuncia inglese fra art e heart c’è appena un’acca aspirata di differenza).