Non è difficile amare le giraffe, soprattutto per quella nobiltà di portamento che le fa sganciare dalla forza di gravità e le colloca in un mondo sospeso, irraggiungibile, misteriosamente immerse nei vapori del cielo più che nei miasmi della terra. Ma Anne Innis Dagg ha fatto di più: ha dedicato loro la sua intera vita di zoologa, scrivendo e raccontando tutto quel che si conosce di questi animali. Ha cominciato quasi ragazzina, partendo a 23 anni per il Sudafrica (era il 1956), esploratrice e pioniera che viaggiava in solitaria in un habitat selvatico, qualche anno prima che vi si avventurassero altre studiose, come Jane Goodall per gli scimpanzé e Dian Fossey per i suoi gorilla. Oggi, Anne Innis Dagg ha 86 anni (è nata nel 1933, a Toronto, in Canada) e con un sorriso aperto accompagna le proiezioni in giro per il mondo del film che narra la sua specialissima esperienza di vita: The Woman Who Loves Giraffes della regista Alison Reid. Il documentario ha vinto la 22/ma edizione del Sonoma international film festival e mixa vecchi materiali girati dalla scienziata a nuove interviste, nate dopo la constatazione, in un viaggio recente, delle terribili mutazioni ambientali che mettono a rischio la sopravvivenza degli animali.
Forse le giraffe hanno risvegliato e nutrito in Innis Dagg una ribellione al «sentire comune». Infatti, nonostante dividano la savana africana con molte altre creature, non entrano mai a far parte di una comunità. «Le giraffe fanno sempre ciò che vogliono, infischiandosene di ciò che pensano gli altri», afferma la zoologa.

Ricorda il momento preciso in cui, fra tanti animali possibili, proprio le giraffe sono entrate nella sua vita?
Sono cresciuta in Canada e quando avevo tre anni mia madre mi portò allo zoo di Brookfield a Chicago. Non dimenticherò mai la prima volta che vidi una giraffa. Mi sembrò subito un essere magnifico, forse la sua altezza – a me allora bambina – mi impressionò. La mia corrispondenza amorosa con quegli esemplari, da allora, non si è mai interrotta.
Lei è andata in Sudafrica negli anni Cinquanta, da sola, come scienziata. Ha incontrato difficoltà nel campo della ricerca accademica in un’epoca dominata dagli uomini?
Sì, infinite. Dopo aver conseguito un dottorato di ricerca, ho tentato di lavorare in tre diverse università canadesi. Quella di Waterloo respinse la mia domanda adducendo il fatto che mio marito aveva un impiego e quindi io non avevo alcun bisogno di candidarmi per nessun posto. La Wilfrid Laurier University fece di meglio: assunse un ricercatore meno qualificato di me, solo perché di sesso maschile. L’Università di Guelph, come si vede anche nel documentario, si affidava a un comitato composto interamente da uomini. Sostennero che il mio programma di ricerca non potesse definirsi completo. In verità, il mio studio è stato pubblicato sulle riviste scientifiche più prestigiose al mondo. Per quanto riguarda la Wilfrid Laurier University, non mi sono arresa e ho continuato a lottare: ho portato il mio caso di fronte alla Commissione per i diritti umani e, dopo sette anni di battaglie, ho perso. Gli anni successivi li ho passati a sensibilizzare l’ambiente accademico e a combattere per conto anche di altre donne chehanno subito discriminazioni di genere.

Come è accaduto che, giovanissima, si è convinta che fosse necessario partire, andare «sul campo»?
Il Sudafrica era il luogo in cui potevo osservare le giraffe libere. Vivevano insieme al bestiame del ranch in cui ero ospite, passeggiavano in grandi territori costellati di diversi alberi. Trascorrevo tutto il giorno nella mia piccola macchina verde osservando i comportamenti di quegli animali, affascinata dalle loro abitudini. Prendevo appunti come una forsennata. Le giraffe non avevano deluso le mie aspettative: vederle libere rinnovava ogni momento l’emozione antica. Dopo circa un anno laggiù, sono tornata a Londra per sposare il mio fidanzato.

L’Africa che la accolse a 23 anni era il paese che si aspettava di trovare?
Era un paese orribilmente razzista. Non trascorrevo molto tempo in città, ma la discriminazione era dappertutto, era una assurdità. Feci amicizia con vari lavoratori neri e molti di loro si spostavano con me, salendo sul sedile anteriore della mia auto, cosa che al tempo era proibitissima. Sono andata avanti pensando solo alla mia ricerca, al mio mestiere che consisteva nello studio delle giraffe nel loro habitat naturale. D’altra parte, è stato meraviglioso incontrare anche altre specie che non avevo mai visto prima. Tutto intorno a me era selvaggio e incontaminato. Il proprietario del ranch, all’inizio diffidente perché ero una ragazza, poi divenne molto gentile e mi lasciò vivere gratuitamente nella sua casa.

Anne Innis Dagg

Cosa l’ha colpita maggiormente del «carattere» delle giraffe?
La loro maestosità. A volte, si muovevano rapidamente, ma di solito lo facevano con grazia spostandosi tra gli alberi per nutrirsi. Camminavano a passi lunghi e lenti , senza fretta, quando volevano mangiare da un’altra pianta.

Gli sconvolgimenti ambientali stanno influendo in modo negativo sulla loro sorte?
Per le giraffe è difficile orientarsi in questo nuovo mondo, ne sono certa, ma non ho avuto modo di rilevare disfunzioni comportamentali. Le strade di asfalto ora attraversano il ranch dove ho studiato a Hoedspruit e le città hanno stretto in una morsa il loro territorio, rispetto a quando ci sono stata ormai cinquant’anni fa.

Lei ha anche dedicato un importante libro a sua madre… Può spiegarci il motivo?
Mia madre ha avuto un’enorme influenza nella mia vita, mi sono sempre sentita in sintonia con lei. Mio padre è morto poco prima che io partissi per l’Africa ma lei mi ha incoraggiata ad andare. Non dev’essere stato facile, considerando che tutti gli altri suoi figli se n’erano già andati di casa. È stata altruista e anche sensibile. E nonostante sono certa che abbia pensato che in Canada sarei stata più al sicuro, mi ha esortato a partire per incontrare le mie giraffe poiché quello era il mio desiderio. Mia madre è stata una scrittrice, nella sua vita ci sono molti libri e racconti, oltre cento pubblicazioni. È stata la sua creatività editoriale a permetterle di provvedere alla nostra famiglia.

I suoi figli hanno ereditato la sua smodata passione per le giraffe o per gli animali tout court?
Non proprio. Due dei miei figli hanno gatti e uno possiede un cane, quindi sì, amano gli animali, ma sembra che il sentimento per le giraffe non abbia nulla di genetico!

 

SCHEDA

Il documentario The Woman Who Loves Giraffes (83 minuti) sarà proiettato a Zurigo, in Svizzera, dal 15 al 17 novembre per il Global Science Film Festival. La regista Alison Reid ha scoperto l’esistenza di Anne Innis Dagg durante un programma radio alla Cbc in cui si narrava della sua esperienza africana nel 1956. «La sua storia mi catturò. Ho subito letto il memoir Pursuing Giraffe: A 1950’s Adventure e ho deciso di fare un film. E così ci siamo incontrate. Il film si è sviluppato con il suo ritorno in Africa, 57 anni dopo dal primo viaggio. Non c’era tempo per cercare finanziamenti, ho trovato una piccola troupe cinematografica disposta ad andare in Africa e autofinanziato l’impresa».