Spiazzante, questa Economia dell’imperduto di Anne Carson (traduzione di Patrizio Ceccagnoli, a cura di Antonella Anedda, Utopia, pp.192, € 18,00) poetessa e classicista nata a Toronto nel 1950. L’«imperduto» del titolo («unlost» in inglese) è l’«unverloren» del discorso che Paul Celan tenne a Brema nel 1958. Parlando della lingua della madre, e di coloro che l’avevano uccisa assieme al padre, Celan dice: «Raggiungibile, vicina e imperduta tra le perdite, rimase solo questo: la lingua. A dispetto di ogni altra cosa, questo soltanto, sì, la lingua, rimase imperduta. Ma dovette passare attraverso la perdita delle proprie risposte, attraverso terrificanti afasie, attraverso le mille oscurità di un mortifero parlare. … In questa lingua ho provato a scrivere poesie».

Di queste formidabili poesie tratta Carson – ma non solo, e neanche principalmente, di queste. Il libro spiazzerebbe meno se avesse mantenuto il sottotitolo che aveva nel 1999, quando venne pubblicato a Princeton nella serie delle Martin Classical Lectures: «Leggendo Simonide di Ceo con Paul Celan». Il testo principale è Simonide, che viene letto da una grecista-poetessa con Celan mentalmente a fianco.

Anche la poesia è merce
Di Simonide, nato a metà del secolo VI, Carson rimarca anzitutto l’appartenenza a un’epoca di trapasso in cui il mondo omerico e arcaico è travolto dall’avvento del denaro («il principale accidente nella vita di Simonide»), che «scardina i gesti pieni di grazia dell’economia aristocratica». Dallo scambio ritualizzato del dono che gli antichi chiamavano xenia, un modello «palesemente non mercantile» in cui «i beni non sono quantificati e il profitto non è lo scopo», si passa a un mondo monetizzato in cui tutto è merce, compresa la poesia. E il gianiforme Simonide fu «tanto astuto da guardare in entrambe le direzioni». Mentre il vecchio mondo resta in un alone convenientemente nebuloso, il nuovo è vividamente delineato. Se Gorgia, vendendo retorica, prendeva diecimila dracme a corso da ogni studente, tanto da permettersi una statua d’oro a Delfi che lo ritrae, Pindaro ne prese altrettante per un singolo ditirambo – e diecimila dracme erano ventotto anni di lavoro di un operaio pagato una dracma al giorno.

Simonide, il più prolifico compositore di epitaffi del mondo antico, stabilì le convenzioni del genere, e la «compravendita formale della pietà» fece la sua fortuna e divenne inscindibile dal suo nome. Catullo usa «lacrime di Simonide» come sinonimo di lamento funebre. Pensate per essere incise su pietre tombali, le sue composizioni epigrafiche sono la prima forma di poesia greca scritta per essere letta.
Un autore di epitaffi deve adeguare la propria ispirazione alla superficie di cui dispone, e da questo petroso limite nasce «un’estetica dell’esattezza e un’economia verbale che sono diventate il segno distintivo dello stile simonideo». La parola greca per questa caratteristica è akríbeia, che significa tanto «minuziosa cura dei dettagli linguistici, espressione esatta», quanto «minuziosa cura delle spese finanziarie, avarizia». La ricca aneddotica antica è concorde nell’attribuirgli entrambe.

«Simonide» scrive Plutarco «dice che la pittura è poesia muta e che la poesia è invece pittura che parla», e suo è il motto «la parola (lógos) è un’immagine (eikón) delle cose». Quanto poco generico ciò sia lo mostra con portentoso acume Carson nelle pagine più forti del libro. Leggendo una serie di epitaffi, fa risaltare l’inaudita capacità simonidea di manipolare una forma in funzione dei contenuti. Intreccia mimeticamente in un insieme di parole le stesse relazioni che vigono in un insieme di fatti, e produce un’unità sintetica cui partecipano simultaneamente lógos e eikón. Valga da esempio un unico frammento. La neonata democrazia ateniese erige un monumento ad Armodio e Aristogitone, uccisori di Ipparco, fratello del tiranno Ippia cacciato nel 510. Da Tucidide sappiamo che l’omicidio, presentato come luminoso eroismo democratico, era scaturito da una gelosia omosessuale (Ipparco aveva insidiato il giovane Armodio, amasio di Aristogitone). Nell’iscrizione sul piedistallo Simonide riesce a far intuire, dietro al mito pubblico, le pulsioni oscure di un intrigo erotico con mezzi puramente prosodici. Scrivendo «Senza dubbio una gran luce sorse per gli ateniesi quando Aristogitone e Armodio uccisero Ipparco» l’astuto poeta viola una delle regole del verso elegiaco, che deve terminare con una parola intera, così che la prima metà del distico termina con «Aristo-» e la seconda inizia con «gitone».

«Questo impulso prosodico errato» scrive Carson «consente ad Aristogitone di sconfinare dalla propria posizione nell’esametro e di ricongiungersi al suo amato nel verso successivo, in maniera tale da circondare l’inopportuno Ipparco». La forma del distico «spezza a metà il nome di Aristogitone con la stessa violenza e la stessa gelosia che lo hanno portato alla morte».

Mentre celebra l’eroismo dei tirannicidi, Simonide riesce anche a far emergere e quasi scolpire «le emozioni omicide di un amore pederastico durante la tirannide». Responsabile della professionalizzazione e mercificazione dell’arte poetica, Simonide parrebbe un equivalente di Protagora, per il quale «la parola che ti inganna è più giusta di quella che non lo fa». Ma se il lógos sofistico «trasforma la realtà in nulla», per Carson «il lógos simonideo dice “no” a quel nulla», perché «un poeta che basi la sua attenzione sulla precisione finisce sempre per dire più verità di quanto non intenda». Egli è «attratto sempre più a fondo nell’abisso dei fatti» dalla sua stessa sapienza poetica. «Le parole rimangono valide per lui?» si chiede Carson. «Sí, possiamo dire di sí».

Celan di sapienza poetica non parla: «Viviamo sotto cieli bui e ci sono pochi esseri umani. Quindi … poche poesie». Ammirava però l’arte dell’acquaforte (praticata dalla moglie), e per Carson «la sua invidia per la precisione dell’incisore di acqueforti è speculare alla preoccupazione simonidea per gli aspetti materiali del taglio della pietra. Sia l’acquaforte che l’epigrafia sono processi di escissione che mirano a costruire un momento d’attenzione rimuovendo, corrodendo o eliminando ciò che è irrilevante, così da lasciare un significato esposto in superficie».

Nel pozzo del cuore
Visitando Heidegger nel 1967, Celan scrisse nel libro degli ospiti: «Nel libro della baita, guardando la stella del pozzo, con la speranza, nel cuore, di una parola ventura». Il giorno in cui si tolse la vita, annegando, il 20 aprile 1970, lasciò aperta sulla scrivania una biografia di Hölderlin con una frase sottolineata a metà: «A volte questo genio si fa oscuro e sprofonda nel pozzo del cuore».
In Tubinga, Gennaio, scritta dopo aver visitato la torre di Hölderlin, egli «pone in forma pura la solita domanda: le parole sono valide?». L’ultima strofe della poesia è: «Venisse, /venisse al mondo un uomo, oggi, con / la barba lucente dei / patriarchi: lui potrebbe, / se parlasse di questo / tempo, lui / potrebbe / solo balbettare e balbettare / ininterrotta-, ininterrotta-, / mente. (Pallaksch. Pallaksch)». «Pallaksch» è un neologismo del tardo Hölderlin che significa : «A volte sì, a volte no». La validità delle parole resta imperduta per Celan? Pallaksch.