Il contributo, l’impegno etico e intellettuale di Annabella Rossi (Roma 14 settembre 1933 – 4 marzo 1984), antropologa, fotografa e documentarista, inizia nel 1959 quando, invitata dall’antropologo napoletano Ernesto de Martino (1908/1965), partecipa alla spedizione etnografica per lo studio del tarantismo nel Salento ed eredita il medesimo impegno culturale, civile e politico che lo studioso riversa nelle proprie ricerche sulle condizioni di indigenza delle popolazioni del Meridione. «Questa realtà – scrive Annabella – deve essere documentata, per essere conosciuta, per circolare, per smascherare chi la copre per precisi fini politici. In tale maniera si contribuirà a cambiare una situazione che per noi è “folklore” mentre per chi la vive è fame, miseria, disperazione».

L’incontro con de Martino avviene nello stesso anno in occasione della pubblicazione di un numero monografico della rivista ‘Nuovi Argomenti’ (dedicato a ‘Mito e Civiltà Moderna’). Attraverso i numerosi colloqui con lo studioso e attraverso la lettura dei suoi scritti, Annabella approfondisce in chiave gramsciana la tematica del rapporto tra mondo primitivo e mondo contemporaneo, inquadrandolo in ambito politico-sociale come problematica dei rapporti tra classi dirigenti e classi subalterne. Adoperando la macchina fotografica e la ripresa video quale dispositivo di ricerca integrato con l’indagine sul campo, invita a una riflessione sulla fotografia: «Mi servo della fotografia per analizzare la realtà che studio; l’operazione di sintesi avviene dopo, in un ulteriore momento del mio lavoro al quale l’esame delle mie fotografie contribuisce notevolmente. […] Una intera pagina non riesce a documentare, né a trasmettere ciò che può una sola immagine». Dà, inoltre, un notevole contributo all’antropologia visiva italiana, arricchendo sempre più il campo dell’immagine-documento, metaforicamente definito ‘campo visivo’ di un’antropologa. Nell’osservare alcune fotografie di panorami urbani riemergono nella mente le immensità di ignoti palazzi e le borgate romane che rievocano gli ambienti desolati della periferia romana ‘sacralizzati’ da Pier Paolo Pasolini  (1922/1975) nella produzione letteraria e cinematografica: Ragazzi di vita (1955), Una vita violenta (1959), Accattone (1961), Mamma Roma (1962).

Le esperienze nell’ambito dell’antropologia visiva della Rossi sono innegabilmente contrassegnate e sollecitate dall’incontro con il regista Michele Gandin (1914/1994), compagno nella vita e nel lavoro, cineasta e fotografo; rapporto caratterizzato dal confronto intellettuale e dal condividere viaggi ed esperienze di ricerca. Nel 1960 viene assunta al Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma e sin dall’inizio svolge l’attività di antropologa museale dedicandosi con completa abnegazione all’istituzione di un settore audiovisivo. Ancora adesso è possibile consultare l’intero catalogo costituito da preziosi documenti sonori, fotografici e cinematografici realizzati e raccolti nel tempo da Annabella con l’intento di lasciare una traccia delle culture attraversate durante il proprio percorso professionale.

Parallelamente al lavoro nel Museo, compie nel Meridione una serie di ricerche sul campo corredate di documentazione fotografica e sonora. Le ricerche riguardano la religiosità popolare e la cultura materiale. Gli esiti sono confluiti nei volumi Le feste dei poveri (1969) e Lettere da una tarantata (1970), in cui s’evidenzia l’approccio gramsciano all’analisi della struttura festa e al folclore considerato fino ad allora elemento ‘pittoresco’ e ‘spettacolare’; per la Rossi, invece, esso è l’espressione di determinati strati sociali con cui entrare in simbiosi. Basti pensare che Lettere da una tarantata – esempio ante litteram di antropologia dialogica – racchiude le sessantacinque lettere che la tarantata Anna (il vero nome è Michela Margiotta), contadina semianalfabeta, nata nel 1898 a Ruffano (LE), ha inviato tra il 1959 e il 1965 alla Rossi. La studiosa e la tarantata si sono incontrate nella chiesa di San Paolo a Galatina il 28 giugno 1959. «Nel luglio dello stesso anno – dichiara la Rossi – la rividi nella sua casa e da quel giorno nacque tra noi un rapporto di amicizia. Cominciò così una corrispondenza, iniziata spontaneamente da parte della donna». Con le lettere ingenue e sgrammaticate, Anna apre un significativo spiraglio sia sul mondo ‘magico’ del Salento sia sulle effettive condizioni esistenziali delle classi subalterne del sud Italia. Persone destinate, dalla nascente cultura di massa, all’oblio, alla solitudine e all’esclusione.

Va sottolineato che, negli anni in cui opera la Rossi, la cultura egemone, propria della classe dominante, tenta insistentemente di rimuovere la cultura popolare definendola volgare, inopportuna e spesso edulcorandola nel più banale e insensato “pittoresco folkorico”. Contro tale rimozione si leva la voce di Annabella, che durante i viaggi nel Salento e nel Mezzogiorno analizza e denuncia. È nel corso di tali ricerche sul campo che la lezione ricevuta da de Martino si coniuga sia col pensiero di Antonio Gramsci (1891/1937) sia col pensiero di Pier Paolo Pasolini, che ha sempre denunciato il genocidio culturale da parte della classe borghese dominante. Nel 1964 pubblica, insieme a Simonetta Piccone Stella, il volume La fatica di leggere, risultato di una ricerca sulla diffusione della lettura presso le classi popolari. Dal 1972 consegue la cattedra di antropologia culturale all’Università di Salerno che manterrà fino al manifestarsi della malattia. Nel corso di questi anni effettua, con studenti e col personale del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, rilevanti ricerche in Campania, in particolare sui rituali del carnevale, con documentazione sonora, fotografica e filmica. Quanto acquisito è contenuto nel volume Carnevale si chiamava Vincenzo (1977), pubblicato insieme a Roberto De Simone, che darà un forte impulso per divulgare l’interesse per la cultura popolare. Una ricerca durata quattro anni, ancora oggi unica e insuperata per vastità e completezza, condotta negli anni Settanta in Campania. Fino all’insorgere della malattia, la Rossi continua a partecipare a seminari, convegni con interventi riguardanti la struttura festa, la ritualità, nonché l’attività di ricerca sul campo.

Svolge l’ultima ricerca incentrata sul tarantismo in Campania, partendo dal Salernitano, nel 1976. Verrà pubblicata postuma nel 1991: E il mondo si fece giallo – il tarantismo in Campania. L’opera di Annabella Rossi – figura eclettica nell’ambiente degli antropologi – si colloca come palese invito a rapportarsi direttamente alla realtà declinando di attestarsi agli infiniti stereotipi dell’industria culturale, alle false liturgie accademiche e ai dogmi delle baronie che le dominano. Forse, per tale motivo, tuttora non è valorizzata e valutata a dovere la sua opera che indubbiamente lascia una traccia indelebile per leggere e codificare le dinamiche della nostra violenta e imbarbarita società neocapitalista. La quale, senza esitazione, sarebbe stata definita dalla Rossi con una visione pasoliniana: «[…] Come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta […]».