Accedendo alla mostra Anna Valeria Borsari. Da qualche punto incerto (fino al 13 febbraio 2022, catalogo Silvana editoriale), il visitatore del Museo del Novecento di Milano troverà ad accoglierlo una grande riproduzione di Spaccato urbano del 1999: uno scorcio diruto di un palazzo milanese, su cui sono rimaste le tracce di un edificio adiacente demolito. A prima vista potrebbe sembrare un documento neorealista, finché l’attenzione non viene attratta da due ritratti di profilo dipinti a olio appesi in prossimità del secondo piano, come superstiti dalla demolizione, appesi dai passati inquilini dell’appartamento andato distrutto e mai rimossi.

ERA STATA L’ARTISTA (Bazzano 1943), a dipingere, con lo stile più impersonale possibile, quelle due tele e a collocarle in quel luogo, costruendovi poi una storia da raccontare attraverso la fotografia. L’operazione artistica, quindi, riportava in un luogo la traccia di una presenza altrui, magari sconosciuta ma verosimile: non erano i due dipinti il soggetto principale, ma la situazione che veniva a crearsi grazie a due presenze insolite, catalizzatrici di un potenziale evocativo.
È questo il senso di «testimonianza» a cui fa riferimento in catalogo Giorgio Zanchetti – curatore della mostra con Iolanda Ratti e Giulia Kimberly Colombo – come primo dei dieci «termini» utili a delineare il lavoro della Borsari: in ogni sua opera c’è il frammento di un’identità personale, un modo di mettere a nudo l’«epidermide sensibile di un luogo intimamente vissuto».
Anna Valeria Borsari, infatti, arriva a scoprire la fotografia negli anni Sessanta, mentre studia al Dams di Bologna e focalizza la sua attenzione sulla filologia, la linguistica e la filosofia del linguaggio, da cui trarrà un’inedita libertà di approccio al mezzo fotografico come strumento di analisi della realtà, servendosi talvolta di fotografie, ma il più delle volte costruendo delle vere e proprie storie che si dipanano per serie di scatti o fotografie singole, ma sempre con uno sguardo scrutatore, attendo a comprendere e a immedesimarsi in un contesto, anche nelle vite di sconosciuti abitatori di luoghi rimasti abbandonati.
Nel ciclo Suonare Borsari del 1997, per esempio, aveva trovato una formula spiazzante di integrazione tra fotografia e pittura: all’interno di appartamenti spogli e abbandonati l’artista aveva rievocato l’arredo ormai smantellato appendendo a parete grandi tele riproducenti del mobilio, come una presenza virtuale di cui dà conto lo scatto fotografico. Narciso, invece, nella serie fotografica di vent’anni prima, è un giovane in jeans e camicia che si osserva riflesso nell’anta a specchio di un vecchio armadio, avvicinandosi fino a sparire, come vuole il mito ovidiano; la macchina fotografica, a quel punto, si sposta come un occhio nella stanza del giovane: la persistenza esistenziale dell’individuo permane anche nell’assenza.

LA FOTOGRAFIA, dunque, diventa uno strumento di costruzione di un racconto, punto di ripresa di una sceneggiatura performativa o documento di un’operazione concettuale di manipolazione dello spazio volta a rendere visibile una metafora nascosta. Ne deriva un’immagine tutta mentale come svolgimento discorsivo, ma che accanto a un approccio razionale e progettuale sa risvegliare nel fruitore il suo lato emotivo più profondo. Identità e relazione, altri termini indicati da Zanchetti, sono due assi portanti di questa ricerca: uno sguardo indagatore che coglie il risvolto nascosto e inquieto del vissuto e, tramite frammenti, ricompone un’identità perduta.