Nel mondo anglosassone, e ormai non più solo in quello, con il termine whistleblower, derivato dall’espressione «blow the whistle» (soffiare nel fischietto) che indica l’azione di un arbitro in una competizione sportiva che vuole fermare un comportamento irregolare o pericoloso, si identifica un «lanciatore di allerta»: chi, in base alle proprie ricerche o analisi è in grado di individuare la china pericolosa che stanno prendendo determinate vicende, processi tecnologici, scientifici o economici o, per estensione, gli esiti catastrofici verso cui possono condurre le scelte di questo o quel leader. Una categoria che sembra essere stata inventata per descrivere la traiettoria di Anna Politkovskaja, la giornalista russa che di allarmi e ammonimenti ne aveva lanciati molti attraverso il proprio lavoro, senza essere davvero ascoltata né in patria né all’estero, ma tanto da finire ammazzata a 48 anni il 7 ottobre del 2006 a Mosca. Perché, come ricorda Francesca Mannocchi nella prefazione agli scritti di Politkovskaja dedicati alla seconda guerra cecena (1999-2009) e al modo in cui quel conflitto ha plasmato la società russa e il sistema di potere al cui vertice siede Vladimir Putin, che tornano oggi in libreria per Bur, (Un piccolo angolo d’inferno, postfazione di Georgi M. Derluguian, pp. 274, euro 15), di fronte all’invasione dell’Ucraina e all’ulteriore svolta nazionalista e repressiva del regime di Mosca, quelle pagine rappresentano «la cronaca di un avvertimento inascoltato».

Anna Politkovskaja. Foto Ansa

FIGLIA DI DUE DIPLOMATICI sovietici di stanza all’Onu a New York, Anna Politkovskaja arriva alla Novaya Gazeta, il giornale che nel 1993 aveva avuto tra i suoi cofondatori Gorbaciov e che era contraddistinto da una linea di indagine rigorosa e lontana da ogni soggezione verso il potere, alla fine degli anni Novanta dopo un decennio di lavoro da cronista in varie testate moscovite. L’ex funzionario del Kgb Vladimir Putin e al debutto della propria carriera politica nazionale, nel 1999 è stato nominato primo ministro da Eltsin e un anno più tardi sarà eletto, per la prima volta, presidente della Federazione russa. Per poco più di sei anni Politkovskaja segue il conflitto sanguinoso che ha luogo nel Caucaso – le stime più attendibili parlano di circa 200mila vittime lungo un ventennio, senza contare la distruzione pressoché totale della città di Grozny, rasa al suolo dai bombardamenti -, recandosi decine di volte nei luoghi dove infuria la battaglia e dove hanno luogo reciproche e crudeli rappresaglie fatte di prigionieri decapitati e torture sistematiche, e che fa sentire la sua tragica eco anche nelle grandi città russe con le azioni del terrorismo e le campagne e le violenze xenofobe che si abbattono sui rifugiati.

Quella che è nata dalla volontà di indipendenza di un popolo al momento del crollo dell’Urss si trasforma in un conflitto sanguinoso che conosce ogni sorta di deriva, «estremismo islamico e lotta allo stesso sono un’unica e sola tragedia», scriverà la giornalista nei suoi appunti. Politkovskaja racconta i crimini dei signori della guerra locali, l’emergere del fondamentalismo islamico, ma anche il modo in cui il Cremlino e i vertici delle forze armate, e una parte almeno della società russa, considerano normali le atrocità che i soldati di Mosca compiono ogni giorno contro la popolazione civile: emblematica la vicenda del colonnello Yuri Budanov responsabile di un battaglione corazzato i cui uomini rapirono, stuprarono e fecero a pezzi una giovane cecena e che diventerà, una volta sotto processo a Mosca, un simbolo dei nazionalisti russi. Una storia terribile che Politkovskaja racconta in La Russia di Putin (Adelphi, 2005), uno dei molti libri dedicati al modo in cui quel conflitto ha segnato la realtà russa di oggi, spiegando come, «offuscata dalla propaganda, la Russia ha pensato che quanto successo fosse giusto: Budanov aveva strangolato la ragazza vendicandosi su di lei, magari ingiustamente, dei guerriglieri ceceni». Sul fondo, per la giornalista, emergeva il modo in cui il Cremlino stesse conducendo «dei giochi estremamente pericolosi», sfruttando la paura, il razzismo e la richiesta di sicurezza per rafforzare il proprio potere e mettere a tacere di volta in volta oppositori, giornalisti scomodi e proteste di piazza. E senza arretrare di fronte a niente: oltre a Politkovskaja nella sola redazione di Novaja Gazeta si sono contati cinque reporter uccisi e il giornale è stato chiuso definitivamente dalle autorità lo scorso settembre per aver voluto raccontare la verità sull’invasione dell’Ucraina».

IL LAVORO DELLA CORAGGIOSA cronista non si limitava però solo al turbine violento della guerra del Caucaso, nei suoi articoli dava voce ogni giorno alle proteste contro gli abusi delle forze dell’ordine, alla denuncia dei casi di corruzione che lambivano i vertici stessi del Paese o del ruolo crescente dell’intelligence del Fsb, l’ex Kgb, nel limitare le libertà civili. Nel 2005 avrebbe raccontato la protesta delle «restituenti»: «Le madri dei soldati caduti in Cecenia (che), private dei sussidi, hanno rispedito a Putin i 150 rubli (4,50 euro) della compensazione in denaro: l’equivalente di venti biglietti dell’autobus». In altre occasioni avrebbe descritto le mobilitazioni per l’aumento di stipendi e pensioni o la crisi sociale derivante dalla diffusione dell’alcolismo. Eppure, si legge al termine del suo Diario russo (Adelphi, 2007), «il potere rimane sordo a ogni “segnale d’allarme” che viene dall’esterno, dalla gente. Vive solo per se stesso. Con stampato in faccia il marchio dell’avidità e del fastidio che qualcuno possa ostacolare la sua voglia di arricchirsi. Lo scopo è far sì che nessuno glielo impedisca: la società civile va calpestata e la gente convinta giorno dopo giorno che opposizione e opinione pubblica si nutrono al piatto della Cia, dello spionaggio inglese, israeliano e finanche marziano».

Ma, in quella stagione, Politkovskaja coglie un altro elemento destinato ad illuminare di nuova luce anche il presente. Siamo all’indomani della rivolta di Maidan a Kiev e la giornalista annota: «Quanto accaduto in Ucraina ha segnato la fine della Grande Depressione politica russa: è storia. L’opinione pubblica si è svegliata dal torpore e ha invidiato con tutte le forze la piazza di Kiev. “Perché non facciamo come loro, accidenti?” ci si ripeteva l’un l’altro. “Siamo così simili, eppure…». E anche se la passione politica ucraina non ha contagiato Mosca, aggiungeva Politkovskaja, «ci è servita comunque da sprone per un Rinascimento di protesta, ha buttato giù i russi dal divano e li ha costretti a guardare per strada». Molto più di una semplice sottolineatura: quella rivolta parlava anche ai russi. Forse in pochi se ne sarebbero accorti a livello internazionale, ma c’è da credere che qualcuno al Cremlino stava cominciando a preoccuparsi di una possibile diffusione di quei fermenti.

Non a caso, scrive oggi Francesca Mannocchi, «molti hanno paragonato l’invasione russa dell’Ucraina alla seconda guerra cecena e in effetti le guerre in Cecenia raccontate da Politkovskaja possono essere lette come l’avvertimento di quello che sarebbe accaduto altrove, l’allarme inascoltato di una Cassandra che tanto più denunciava e descriveva gli orrori che si consumavano nella piccola repubblica, quanto più si sentiva allontanata, messa ai margini da una società che rifiutava di vedere». Se quelle guerre hanno definito «la strategia della terra bruciata» che il Cremlino ha poi messo in atto in ogni scenario nel quale le sue forze sono state impegnate, sono tali vicende ad aver «cominciato a modellare la Russia moderna per come la conosciamo ora, un Paese che ha spento la libertà d’opinione, che punisce i dissidenti, incarcera gli oppositori politici, vieta le manifestazioni di dissenso, che ha ucciso e continua a uccidere giornalisti leali alla verità».

Manifestazione nel 15esimo anniversario dell’omicidio della giornalista. Foto Ap

Dopo aver subito ogni sorta di minaccia, un tentativo di avvelenamento, più d’un arresto, e aver trascorso nel 2001 alcuni mesi «al sicuro» a Vienna, Anna Politkovskaja fu uccisa nel pomeriggio del 7 ottobre del 2006 mentre rientrava con le borse della spesa. Il suo assassino, che conosceva il codice per aprire il portone le ha sparato alla testa con una pistola silenziata mentre apriva la porta dell’ascensore. Per quel crimine, a otto anni dai fatti, sarebbero stati condannati alcuni malavitosi ceceni, già informatori del Fsb, e un ex poliziotto, senza che sia fatta mai luce sul motivo e i mandanti dell’omicidio. La giornalista fu uccisa il giorno del 54esimo compleanno di Putin, nessun rappresentante del governo russo prese parte ai suoi funerali.

DEL RESTO, il suo lavoro l’aveva resa oggetto di un odio sordo e determinato negli ambienti del potere moscovita come presso i signori della guerra del Caucaso, di volta in volta avversari, complici o subalterni al Cremlimo. Eppure, al di là della difesa di qualunque «causa», ciò che rivendicava era la possibilità di svolgere, e bene, il proprio lavoro. «Ma, alla fine, che cosa avrei combinato? – spiega in uno dei testi raccolti in Per questo (Adelphi, 2009) dopo la sua scomparsa – Ho scritto ciò di cui sono stata testimone. E basta. L’importante è avere l’opportunità di fare qualcosa di necessario. Descrivere la vita, parlare con chi ogni giorno viene a cercarmi in redazione e che non saprebbe a chi altri rivolgersi. Dalle autorità ricevono solo porte in faccia: per l’ideologia al potere le loro disgrazie non esistono, di conseguenza neanche la storia delle loro sventure può trovare spazio sulle pagine dei giornali. Solo sulla Novaja Gazeta». L’articolo che conteneva questo brano fu pubblicato il 26 ottobre 2006, Anna Politkovskaja era già morta da qualche giorno.