Dopo la prima al Sundance arriva ora in Europa, allo Sheffield DocFest, My name is Pauli Murray di Julie Cohen e Betsy West. Il documentario è una produzione Amazon che vuole porre all’attenzione del grande pubblico una figura rimasta a lungo ai margini della Storia nonostante abbia contribuito a sviluppare principi dirompenti della giurisprudenza Usa in materia di diritti civili e parità di genere e abbia lasciato una marea di scritti in ambito legale, poesie, due volumi di memorie autobiografiche (Proud Shoes del 1956; Song in a Weary Throat uscito postumo nel 1987) e un archivio enorme conservato ad Harvard.
Anna Pauline «Pauli» Murray (1910-1985) è stata avvocata, docente, poeta, prima donna non bianca a diventare prete nella chiesa episcopale. Ha svolto un ruolo pionieristico nello sviluppo di azioni e argomentazioni antirazziste. Ancora studente, nel 1944 scrisse un saggio le cui idee furono riprese nelle famose sentenze «Brown contro Board of Education» del 1954 e 1955 con cui la Corte Suprema stabilì che la segregazione scolastica era incostituzionale rompendo finalmente con l’ipocrita dottrina del «separati ma uguali». Pauli amava le donne e veniva percepita come donna ma era più che altro un «soggetto lesbico», per dirla con Wittig, un’amazzone che sin da giovane si identificava con figure avventurose e al di là del genere: «the dude», «the crusader», «the vagabond», «the acrobat» recavano come didascalia alcuni autoritratti giovanili. Già negli anni Trenta aveva tentato una terapia ormonale che la instradasse verso una riassegnazione di sesso mai però avvenuta. Forse oggi sarebbe giusto parlarne in termini non binari come fanno alcune delle persone intervistate nel film, tra cui Chase Strangio, che ne studiano e trasmettono l’eredità civile. Julie Cohen, co-regista, con cui abbiamo parlato via zoom, utilizza il pronome she ma è una convenzione…

Cosa vi ha spinte e dedicare un documentario a Pauli Murray?

Betsy West e io abbiamo sentito il suo nome per la prima volta nel 2018 realizzando il film RBG sulla giudice Ruth Bader Ginsburg. È stata lei a parlarci di Pauli perché voleva le si riconoscesse un ruolo chiave nell’aver affermato che l’eguaglianza di genere è un principio garantito dalla Costituzione. Nel 1971, RBG scrisse la sua prima memoria difensiva per la Corte Suprema nell’ambito di quel caso di eccezionale portata storica che è il «Reed contro Reed» in cui applicava l’eguaglianza donne-uomini appellandosi alla Clausola di Pari Protezione del Quattordicesimo Emendamento e abrogando così una legge dell’Idaho che discriminava le donne nell’amministrazione dei beni. Di solito chi stila questi documenti cita in nota gli altri legali che hanno contribuito ma Rbg volle che Pauli risultasse co-autrice anche se non era stata direttamente coinvolta in quel caso. Questo perché Pauli già nel 1965 aveva sostenuto quella stessa argomentazione in un articolo e durante un processo nella corte federale dell’Alabama. Ci è parso che la sua figura andasse indagata ed è bastato cercare il suo nome online per renderci conto di quanto ricca e pioneristica fosse e che le battaglie legali non sono che il 10% della sua storia! C’erano i vagabondaggi, la docenza in Ghana, tutta l’opera letteraria. Già alla fine degli anni 40 Pauli è stata arrestata per aver rifiutato di occupare posti riservati alle persone nere nei caffè e sui bus (ma non fu certo la prima) anticipando di un decennio due atti simbolici che hanno fatto storia nelle lotte per la desegregazione.

Pauli era in anticipo sui tempi ma è poco nota a livello internazionale: perché?

Al di là dei contesti accademici, non è nota al grande pubblico nemmeno negli Usa anche se si è fatto molto ultimamente per cambiare le cose. Il silenzio è dovuto a una combinazione di fattori: la sua originalità disorientava, era difficile da incasellare. Poi Pauli era introversa e solitaria. Rosa Parks divenne famosa perché c’era già un intero movimento contro la segregazione sui mezzi di trasporto che si è mosso per sostenerla, cosa che a Pauli non capitò. Inoltre, si è occupata di tante cause ma non le interessava diventare leader di un movimento. Se le sembrava di avere un contributo da dare lo faceva e lasciava che altri proseguissero. Bisogna poi considerare il suo bisogno di proteggere se stessa e chi le stava accanto. Tenne sempre riservate le sue relazioni con le donne mantenendo anche in quelle un profilo basso.

Julie Cohen e Betsy West, le co-registe del documentario

Che cosa ha contribuito ultimamente a rompere il silenzio?

Negli ultimi anni si è capito che la storia degli Usa, e non solo, non è fatta soltanto da maschi bianchi. Come dice Tina Lu, che oggi dirige il Pauli Murray College a Yale, «se studi la storia, ti rendi conto che non per forza i nomi più noti sono quelli delle persone più innovative o determinanti». Ora siamo alla ricerca di figure che hanno pensato e agito in modo alternativo a quello dominante. Il movimento Black Lives Matter ha contribuito alla riflessione sulla scrittura della storia non solo desacralizzando personalità un tempo riverite ma anche valorizzandone alcune oscurate. Pauli è mancata nel 1985 e solo ultimamente c’è stata una sorta di «rinascimento» della sua fama: studi, riedizioni di suoi libri, il New Yorker le ha dedicato un pezzo nel 2017.

Come è avvenuto il processo di scrittura del film?

L’abbiamo costruito in modo polifonico, selezionando il materiale con la nostra produttrice Talleah Bridges McMahon e poi al montaggio con Cinque Northern. Abbiamo fatto scelte molto drastiche perché Pauli era tante cose e aveva lasciato 141 scatole di documenti, lettere a chiunque – dalla nonna al Presidente Roosevelt a Eleanor di cui era molto amica – diari, appunti, referti medici propri e dei suoi amati cani nonché una quarantina di ore di audio e video degli anni 70 e 80 in alcuni casi mai digitalizzati.

Tra le testimonianze che puntellano la narrazione c’è solo una persona di famiglia, la pronipote: come avete lavorato insieme?

Karen è colei che Pauli ha nominato esecutrice testamentaria e custode della sua memoria ed eredità, che non era chissà quale ricchezza ma un archivio da ordinare e consegnare a chi lo potesse conservare come merita. Era la compagna di Pauli, Irene Barlow, a tenere in ordine le sue carte ma dopo la sua morte nel 1973 le cose si sono accumulate in modo disordinato. Ereditando, Karen ha avuto molto da fare ma ha anche scoperto più in dettaglio che persona straordinaria fosse sua zia, proprio come noi. In un certo senso, in lei si rispecchia metaforicamente il nostro lavoro.

Dove avete trovato il repertorio video e come ci avete lavorato?

Ci sono due repertori principali: un’intervista resa alla Cbs dopo la sua ordinazione ecclesiale e una videocassetta di un’intervista fatta nel 1979 da una studentessa di nome Lynne Conroy che si occupava di femminismo e che l’ha donata ad Harvard, per una pura coincidenza, proprio nella biblioteca dove l’archivio di Pauli è stato infine depositato ma in un fondo diverso: è così che l’abbiamo trovata!

E il repertorio audio?

Pauli registrava molti audio come se sapesse quanto fosse importante lasciare una traccia a futura memoria. Nel suo archivio abbiamo trovato un audio autobiografico di cinque ore molto incisivo ma ce ne sono altri, perché mentre scriveva Song in a Weary Throat Pauli aveva un’amica e mentore che stava diventando cieca e registrò delle letture dei diversi capitoli apposta per lei, che lasciò poi i nastri in una biblioteca pubblica del Maryland dove una nostra assistente li ha trovati per caso cercando delle fotografie.
Si ha l’impressione che il vostro film sia solo il primo capitolo di mille esplorazioni possibili
Il film non ha certo la pretesa di dire l’ultima parola su Pauli ma piuttosto d’invitare a saperne di più, a leggere i suoi libri, con la gioia di imparare senza sensi di colpa ciò che la scuola non ci ha saputo insegnare.