Il teatro d’opera è un tempio dove si celebrano riti: a differenza di molti templi religiosi nostrani, il miracolo e l’ostensione del sacro sono eventi rari e imprevedibili. L’epifania del divino attraverso la diva (la parola non significa che quello) è un evento eccezionale, che crea furore, isteria, trasformando la serata d’opera in un’orgia dionisiaca, dove il pubblico, attraverso l’eccesso dell’applauso e dell’urlo, cerca di stabilire un contatto fisico con la diva, di ricambiare il piacere ricevuto, di toccarla, di possederla.

Tutto questo è accaduto giovedì 9 marzo alla Scala con La traviata di Giuseppe Verdi, in cui il ruolo della protagonista era interpretato da una delle poche dive, forse l’unica, del teatro d’opera contemporaneo: Anna Netrebko. Dopo avere debuttato trionfalmente come Violetta a Salisburgo nel 2005 e avere portato il personaggio in giro per i maggiori teatri del mondo, il soprano russo torna al ruolo per l’ultima volta (ahinoi) con tre attesissime serate, forte di una voce naturalmente bella, timbrata, piena, grande, omogenea, duttile, che in questi anni ha acquistato ancora più corpo, sfumature e volume, aggiungendo al registro acuto già sfogato un registro centrale pieno e sonoro, oltre che una coloratura sempre più a fuoco. Lei stessa ammette che non potrà mai essere un soprano drammatico d’agilità, mito immortale del teatro romantico, ma, grazie a una tecnica invidiabile, riesce a calzare l’impervio ruolo di Violetta in tutte e tre le famigerate declinazioni vocali previste da Verdi: di coloratura, drammatico, lirico.

Ogni dettaglio della sua interpretazione è pensato e calibrato: il fraseggio è sorprendentemente convincente, la fisicità del ruolo è risolta senza eccessi e allo stesso tempo senza risparmiare energie. Le fanno da spalla il sempre bravo Francesco Meli, che, seppure con qualche impaccio suo tipico nella gestualità, vocalmente dà vita a un Alfredo fresco, ricco, variato al punto giusto, e la vecchia gloria Leo Nucci, a suo agio nel ruolo di Germont, con una performance vocale sorretta da una tecnica ancora ferrea ma minata da una voce ormai stimbrata e corta.

Alla direzione l’ottantaseienne Nello Santi, gloria del teatro di tradizione italiana, che dirige con passo felino gustandosi ogni nota della partitura verdiana, tenendo tutto a fuoco (si veda la cesellatura rara dei parlanti), seguendo con rara precisione i cantanti, e allo stesso tempo sottoponendoli a uno sforzo immane: i tempi continuamente dilatati, che ricordano quelli dell’insuperabile Carlo Maria Giulini, raffigurazione estrema e rischiosa del più puro piacere lirico, costringono tutti a fiati lunghi e perigliosi. Ma ciascuno a suo modo ne esce vittorioso. Il risultato è una Traviata astratta, composta, monumentale. L’allestimento è quello di sapore viscontiano del 1990 di Liliana Cavani, che rischierebbe di risultare stantio, se la diva e i suoi compagni di avventura non riuscissero nel miracolo di infondervi nuova vita.