Anna, moglie inappagata dell’alto funzionario Karenin, va da Pietroburgo a Mosca per pacificare cognata e fratello infedele. Kitty, la sorellina della cognata è infatuata del rubacuori Vronskij e rifiuta l’introverso cercatore di verità, Levin. Quando Vronskij sarà amante di Anna, tra fuoco e tormento, Kitty cederà alla pace e alla felicità che le offre Levin. Destini allo specchio e destini incrociati, sentimenti devastanti e sentimenti edificanti, controllati e incontrollabili.
Simmetrie e intrecci, chiasmi come in una partita a scacchi delle vicende umane più esemplarmente eterne che si possano immaginare. La vita alla sua quintessenza, così pesante e così leggera che ha fatto innamorare già dieci generazioni di lettori. Ma su tutto c’è un’altra architettura, che tutto, da quando l’uomo è uomo, racchiude: alla stazione di Mosca, dopo aver appena conosciuto Vronskij, Anna vede un ferroviere schiacciato da un treno; alla stazione di Pietroburgo, quando la passione si sarà spenta e Vronskij sul punto di abbandonarla, Anna ritrova le ruote del treno come le fauci della vita, che tutto ha dato e insieme stritolato, e ci si butta sotto.

Gli ingredienti di quello che è forse il classico dei classici della forma romanzo sono anche quelli di un bestseller, e su questo punta la nuova Anna Karenina di Claudia Zonghetti (Einaudi, «Le grandi traduzioni», pp. 968, euro  28,00). È una scommessa ardita, anzi sfrontata: a mio avviso, una scommessa forse persa, ma con tutto l’onore delle armi rese a una traduttrice di evidente professionalità e di indubbio talento. In più, fa un bell’effetto il volume compatto, grande ma non sterminato, caratteri in corpo di agile leggibilità, così da promettere a tutti un’appassionante lettura d’un fiato, sappiano o non sappiano di Anna e di Vronskij, Levin e Kitty, Mosca e Pietroburgo, di agricoltura utopica e stazioni ferroviarie.
A esplicitare ulteriormente le promesse, c’è in copertina una della più celebri bellezze russe dell’Ottocento, Leonilla Barjatinskaja, divenuta principessa di Sayn-Wittgenstein e immortalata da Winterhalter, il ritrattista delle regine. Una bellezza russa che sembra fatta apposta per venire esportata: d’altronde, sta qui il segreto del successo mondiale di Anna Karenina,

Come ardiscono a fare solo i grandi traduttori, Claudia Zonghetti reinventa il tessuto linguistico dell’originale da capo a piedi: parafrasa se il traducente più ovvio è un inceppo, dà all’aggettivo quel che era del sostantivo, rimodula tagliando e compensando e aggiungendo. Frammenta i leggendari periodi infiniti tolstoiani in tre o in quattro. Sospende con il punto e virgola, inventa microincisi. Scardina la sintassi con anticipazioni e inversioni di sistematica risolutezza, mettendo in primo piano ciò che era sullo sfondo. Rifugge il generico e cerca sempre sapidità e torniture. E così dà vita a un testo fluido e coinvolgente, snello, incisivo e brioso, che si legge davvero bene; ma che nulla più ha a vedere con lo stile di Tolstoj, che – al contrario – è volutamente lento, ponderato, armonioso, equilibrato. Le tinte attenuate da sembrare scialbe, l’ordito fonico inavvertibilmente incisivo. I lunghissimi periodi si dipanano in tensione percettiva e il senso si forma solo all’ultimo tassello, che è anche saldatura ritmica.

La magia del romanzo è in gran parte in questa sintassi, dove pesantezze sommate a fragilità sono l’anima e lo specchio della società nobiliare russa del secondo Ottocento, matura e satura, ingolfata nel narcisismo e nelle convenzioni, terreno ideale per il cupo gioco a scavarsi dentro, scoprirsi e perdersi che accomuna tutti i personaggi. Questo è il coacervo di atmosfera, psicologia e lingua che dovrebbe provarsi a rendere una traduzione «bella e infedele»: così fa Caproni con Céline, Frassineti con Rabelais e non Zonghetti con Tolstoj, perché la traduttrice cede alla tentazione più pericolosa, quella di provarsi a migliorare, correggere, abbellire, che nel caso di Tolstoj testimonia un completo fraintendimento dello spirito profondo del testo.
Nella sua stroncatura di qualche giorno fa, poco meritata e per nulla argomentata, Paolo Nori si è fermato alla tredicesima riga, avendo buon gioco a dire che, se dopo cinque anni di continue revisioni, nel celeberrimo incipit di «casa Oblonskij sottosopra» Tolstoj decide di ripetere in posizione focale «marito» e «moglie» ce ne sarà bene una ragione: non posso che concordare e rincarare la dose, perché in quel contesto di famiglia «allargata» eliminare le ripetizioni facendo dire: «La signora non usciva dai suoi appartamenti e il signore non si vedeva da tre giorni» significa spostarsi sul punto di vista della servitù, che è quanto di più estraneo ci sia all’impianto narrativo del romanzo.

Tuttavia, la guerra senza frontiere di Zonghetti alle ripetizioni non può essere liquidata semplicisticamente. Da un lato si fonda su una differenza tipologica tra le lingue – in russo la prassi stilistica è in merito meno restrittiva che in italiano – dall’altro si innesta su una campagna di più ampia scala contro tutte le idiosincrasie del traduttese in salsa russa (pronomi soggetto, personaggi molteplicemente indicati con diminutivi o nome e patronimico), estesa anche alla predilezione per l’indefinito – che di nuovo è del russo quanto di Tolstoj – e al lessico non connotato. Gli esiti sono nel complesso apprezzabili, e vanno a inscriversi a tutto tondo nel disegno di modernizzazione, snellimento e agevolazione della lettura. Con un vistoso, però, rovescio della medaglia.
Per restare all’eliminazione delle ripetitizioni, la trappola più frequente è l’introduzione di una semantica niente affatto pertinente. A puro titolo di esempio: «un certo» compiacimento di Oblonskij diventa «grande» e viene riferito a una «prodezza» di cui non c’è traccia in russo, del tutto incongrua con l’atmosfera agrodolce del brano.

Analogamente, all’eliminazione dell’indefinito fa seguito la necessità di connotare ciò che non lo era, con profusione d’arbitrio che arriva, in una delle scene cruciali, a gonfiare quel semplice «qualcosa» che Vronskij avverte nel fino allora tanto disprezzato Karenin, in «nobiltà d’animo». Meno comprensibile ancora è l’avversione all’indefinito sul piano sintattico, dove i costrutti kak by, kak budto («come se») vengono derubricati trasferendo il discorso sul piano della realtà, con una sufficienza imbarazzante nei confronti del lettore, al quale viene detto: «La contessa Mar’ja Borisovna è stata eletta ministro della Guerra e la principessa Vatkovskaja è il nuovo capo dello Stato maggiore» senza avvertirlo, come si fa con il lettore russo, che si tratta di uno scherzo.
La distorsione meno accettabile di tutte è però quella del tessuto stilistico: il Tolstoj di Anna Karenina è celebre per la straordinaria capacità di plasmare e armonizzare il russo comune neutro della sua epoca rendendolo un organismo di prodigiosa duttilità, interamente al suo servizio. In italiano invece i salti di registro sono continui, soprattutto verso il basso, a partire da «tresca», che è il termine con cui viene definita la relazione extraconiugale di Oblonskij nell’incipit, ma anche verso l’alto, dove il bianco è sempre candido e il freddo algido.
La strategia che guida la traduzione, nel suo complesso, è chiara: dire sempre un po’ di più, far suonare sempre un po’ meglio, insomma «abbellire». E Zonghetti rincara la dose, con tante piccole notazioni aggiuntive, spesso avverbiali, per le quali non c’è alcuna rispondenza in russo. In un periodo può saltar fuori dal nulla «d’un tratto» e «in un balzo», in un altro «in fronzoli» e «in ghingheri».

I molti pregi della versione, insufficienti per farsi proposta coerente e convincente di un grande Tolstoj italiano, vanno calcolati a parte, ogni qualvolta la conquistata scorrevolezza e le talentuose equivalenze non entrano in collisione con la sobrietà disillusa e dolente dell’originale.
Molto meglio va non appena ci si allontana dalla sintassi tolstoiana di tre o cinque piani: davvero esemplare è la resa dei dialoghi, che riesce a connotare caratterialmente con efficacia e teatralità ciascuno dei personaggi, accompagnando sapientemente Anna in tutte le metamorfosi dell’espressività: dalla curata eleganza alla sfrontatezza e al sarcasmo generati dalla passione alla cupa incertezza quasi afasica quando monta la disperazione. E pronta è la risposta della traduttrice anche davanti alle sfide più ardue: il rompicapo dei giochi di parole o l’almanaccare filosofeggiante di Levin e attorno a Levin, che necessita di alleggerimento più di ogni altro luogo testuale.

Stupisce, invece, la scelta conservatrice nella resa dei realia: non mancano, pur confinati, a fuggire le note, in un dissimulatorio elenco finale, i vari pud e aršin, batjuška, tarantas e lapti (assieme a una ’sagena’ curiosamente italianizzata), che tanto deliziano i cultori della russità straniante e imbarazzano invece il pubblico in cerca di leggerezza cui sembra rivolgersi la traduttrice. In termini di attualizzazione e omologazione alla fruizione dell’oggi era stata, in realtà, molto più coerente e risoluta l’ultima in ordine di tempo – e a mio avviso la più efficace – tra le traduzioni di Anna Karenina, quella di Laura Salmon per i Classici dell’Ottocento di Repubblica (2004), oggi ovviamente introvabile.

Ora, se da una serie dedicata alle «Grandi traduzioni» è legittimo presupporre un considerevole impegno redazionale, anche in quest’ottica il risultato appare insoddisfacente: parecchi i refusi e le omissioni ingiustificate, diversi – alcune decine – gli errori di interpretazione, dietro ai quali, in alcuni casi, sembra di cogliere non tanto la sufficienza verso i confini della semantica imputabile alla traduttrice quanto, nella stessa direzione, la ben più pesante «mano a cascare» degli editor, senza sufficienti competenze linguistiche. Difficile pensare che una valida russista come Claudia Zonghetti possa immaginare Vronskij prendere «non sul serio» l’annuncio della gravidanza di Anna; infatti, in russo c’è il più che esplicito prinjat’ legko, che vuol dire «alla leggera».
Tra gli obiettivi realizzati in una così accattivante e fruibile rivisitazione di un classico c’è quello dell’incentivo alla lettura, sempre più pressante, perché un classico resti tale, nell’era della sovrapposizione e della disintegrazione dei codici e dei linguaggi: a questo fine la Karenina di Zonghetti è efficace quanto e anche più che non altre traduzioni in commercio.
Resta, naturalmente, il segreto del fascino senza eguali di un libro sull’adulterio che da centocinquant’anni, a dispetto dei mutamenti sociali, dice di più e tanto più profondamente di qualsiasi altro libro sull’adulterio. Forse perché il vero tema del libro è la morte, forse perché Tolstoj riesce a creare da una prospettiva monologica un insuperabile intrico di quadri psicologici contrapposti, che sulla direttrice passione-peccato-castigo vivono la stessa presa di coscienza della terrea inconciliabilità di istinto e convenzioni sociali vissuta dall’autore, e che avrebbe portato Tolstoj nel decennio successivo al rigetto totale dei principi estetici su cui era fondato il suo capolavoro.