Se ne è andata Anna Marchesini, attrice e donna straordinaria, colpita da circa dieci anni da una malattia degenerativa, una artrite reumatoide particolarmente aggressiva e deformante che l’aveva quasi attorcigliata su se stessa, lasciandole intatta per altro la sua nota lucidità di pensiero e di spirito. Avrebbe compiuto a novembre 63 anni. Negli ultimi tempi era comparsa in tv da Fabio Fazio, usando l’uscita dei suoi libri (romanzi e racconti) per rinforzare in qualche modo il cordone ombelicale che al suo pubblico la univa. Senza nascondere la sua malattia, e anzi scherzando con classe crudele, quasi esorcistica, sulla morte, la vita, e il suo rapporto con loro. Molto teatrale comunque, come i moltissimi personaggi che nella sua densa storia artistica ha elaborato, inventato, appuntito, interpretato e portato al trionfo. Come quando, a fine anni 90, le sue apparizioni a Quelli che il calcio incollavano alla tv anche i meno sportivi.

Perché certamente è stata la televisione a darle una popolarità straordinaria: nel volgere di pochi anni il Trio Marchesini-Lopez-Solenghi ha scalato le vette di ogni share. Dalle ospitate a sempre più intense partecipazioni che li hanno visti protagonisti di una stagione tv fortunata, grazie a loro che vennero sempre più frequentemente chiamati a rilanciare testate in crisi, dallo show del sabato sera a Fantastico, fino al festival di Sanremo, e alla riscrittura in proprio, e con il proprio stile, dei classici della letteratura, come solo al Quartetto Cetra era stato permesso.

Una vera bomba comica

I loro Promessi sposi del 1990 furono una vera bomba comica, con uno humour che aggrediva selvaggiamente non certo il romanzo manzoniano, quanto i divi e i valori fasulli proprio della televisione e del costume corrente italiano. Avevano cominciato in tv con Enzo Trapani nell’85 (Tastomatto e poi Domenica in), e sono arrivati a giocarsela con i mammasantissima di diverse generazioni di viale Mazzini, da Pippo Baudo a Fabio Fazio. Il loro era un successo senza argini, né di intelligenza né di colpi bassi, ed ebbe un seguito trionfale anche a teatro: per anni la sterminata platea del Sistina si è esaurita per il loro Allacciate le cinture di sicurezza (1989), e poi con In principio era il Trio nel ’93.

 

Ma il teatro del resto era la loro vera culla artistica. Quando il Trio si sciolse (forse per scelta di Solenghi che voleva misurarsi da solo col palcoscenico) tutti vi sono ritornati. E per Anna Marchesini fu un felice ritorno alle origini, che scopriva anche la sua importanza nel successo del Trio. Lei infatti si era diplomata all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico, come testimonia ancora oggi la sua foto sulle scale dell’istituto, assieme a quella di tutte le celebrità che lì si sono formate. E questa origine spiega, e aiuta a definire, la sua grande arte.

Sarebbe errato e fuorviante classificarla, come capita ora in rete, una brava «imitatrice», o anche una irresistibile «comica». Lei era proprio una grande, colta, e profondissima «attrice», nonché autrice di se stessa. Di un tipo che ha poche pari negli ultimi 50 anni, donne capaci di essere prima che commedianti «antropologhe» della società attorno a loro, in grado di coglierne lessico e strafalcioni, paradossi e frustrazioni, aspirazioni e repressioni anche le più inconfessabili, da travasare in personaggi contemporaneamente lunari e concreti, estremi eppure capaci di convincere ognuno a riconoscervisi, anche senza confessarlo: dalla sessuologa Merope Generosa alla Signorina Carlo. Andando al di là degli stereotipi di genere, e con un uso misurato e drammaturgico dell’accento dialettale (era nata a Orvieto). Come lei, anche a passare in rassegna le moltissime grandi attrici che l’Italia ha avuto dalla guerra in poi, da Anna Magnani a Silvana Mangano a Monica Vitti, solo Franca Valeri e Bice Valori hanno mostrato analoga potenza creativa nel generare personaggi così normali e così perversi, così lontani e così identici a ciascuno di noi.

Anna Marchesini il teatro lo ha vissuto per questo, amata e ammirata da moltissimi nell’ambiente, compreso Luca Ronconi. E chi ha avuto la fortuna di vederla in scena da sola, misurarsi con una platea buia, si è potuto rendere conto della gamma di possibilità che lei così esile aveva in serbo. Il racconto meraviglioso e paradossale di Tommaso Landolfi su Le due zittelle fiorentine d’altri tempi che vedono le loro proiezioni sessuali incarnarsi in un giovanotto dalle forme sempre più scimmiesche, era una performance da Oscar, con le voci, i respiri, i passi, le sospensioni e le controscene su cui lei procedeva. E per quella che sarebbe stata la sua ultima interpretazione (a parte il racconto Cirino e Marilda non si può fare tratto dalla sua stessa raccolta Moscerine, già condizionato dalla malattia) aveva scelto, non a caso, forse già consapevole di cosa l’aspettava, un testo complicato e significativo: Giorni felici di Samuel Beckett, maratona coscienziale di una donna immersa per metà nella sabbia, che ripercorre confusamente momenti e immagini disparate della propria vita.

Dopo poche repliche all’Eliseo, lo spettacolo fu chiuso, e la tournée interrotta, causa malattia.

Fantasia spericolata

Ma il teatro le era rimasto dentro. È nota, l’ha raccontata lei stessa, la sua fantasia spericolata di voler depositare le proprie ceneri dentro una scatola di ceramica su un ripiano della sala Orazio Costa alla Silvio D’Amico, luogo di riunioni, lezioni, assemblee e consigli d’amministrazione. Un bel posto, diceva, per riposare, anche se rischioso perché la ceramica avrebbe potuto rompersi cadendo, e come avrebbero potuto reagire le ceneri?

Affilata e spiritosa fino alla fine, ma anche dolcissima e appassionata, quando in questi anni accettava l’invito di Lorenzo Salveti che da allieva dell’Accademia l’aveva conosciuta, e nella quiete ovattata dell’emeroteca di Casa Macchia raccontava e spiegava ai nuovi allievi cosa è il teatro, e come si fa.