Il volo libero dei falchi è l’energia che la porta ancora a combattere, 40 anni dopo quell’aprile del 1981 quando assistette a una strage di rapaci da parte dei bracconieri. Iniziò quel giorno, a soli 15 anni, il suo impegno costante per la difesa degli uccelli. Contro le uccisioni illegali, i ferimenti e gli avvelenamenti. La chiamano «la signora dei falchi», già insignita del Goldman Environmental Prize (il Nobel dell’ambiente), è stata ora premiata come «Ambientalista dell’anno 2021». Quando la raggiungiamo, Anna Giordano, messinese e ornitologa del Wwf, è di ritorno dalla terapia a un avvoltoio monaco al Centro di recupero della fauna selvatica dello Stretto di Messina, che ha contribuito a fondare. Un esemplare rarissimo, «saranno mille coppie in tutto il mondo», il secondo in trent’anni ritrovato in Sicilia. Una cura contro il saturnismo, una grave malattia dovuta all’ingerimento del piombo che rimane nei resti delle prede uccise dai cacciatori «Sta meglio, ma siamo in ansia», precisa.

Ricevendo a Casale Monferrato il premio dedicato all’ambientalista dell’anno, promosso da Legambiente e la Nuova Ecologia e intitolato a Luisa Minazzi, che lottò contro l’Eternit e poi contro il mesotelioma, ha citato Seneca parlando d’indignazione. Cosa significa indignarsi?
Significa soffrire e arrabbiarsi e tentare di fare qualcosa contro soprusi e progetti arroganti. Non penso più, come mi capitava da picciridda, di poter salvare il mondo, ma se tuttora mi indigno vuol dire che nutro ancora speranza in un futuro migliore. A Casale, ho sentito un grande senso di comunità, è stato emozionante, bellissimo e inaspettato. Non penso di aver fatto niente di così anomalo nella mia vita. Dopo aver visto una strage di uccelli, come quella che mi segnò per sempre quarant’anni fa, non potevo tornarmene a casa senza far nulla. È stata una battaglia di legalità. Amo gli animali da sempre; fino a dieci anni ho vissuto a Milano e alla domenica andavo allo zoo con papà e studiavamo insieme come liberare gli animali dalle gabbie. Qualche anno dopo, trasferiti a Messina, scoprii che la tanto sognata migrazione degli uccelli avveniva a due passi da casa, ma che, purtroppo, c’era anche chi li uccideva. Mi sembrava inverosimile, avevo letto la legge del 1977 e sapevo che era illegale, e con un mio compagno di Lipu, io avevo 15 anni lui 14, il 7 aprile del 1981, decisi di andare a vedere direttamente cosa succedeva. Salii sul Monte Ciccia, e lì vidi uccidere 17 su 34 rapaci passati in poche ore.

Fu il battesimo del fuoco?
Sì. Al ritorno i bracconieri ci circondarono, più di trenta persone armate. Strapparono la borsa al mio amico svuotandola, cercavano la cartuccia dov’era stampigliato il falco pecchiaiolo con il nome dialettale «adorno», la cui caccia è vietata. Ma la cartuccia ce l’avevo io in tasca, avevo il cuore a mille. Mi urlavano «vai a fare la calza». Dopo un po’ ci rilasciarono, piansi di rabbia e di dolore. Tornando in città vidi una farfalla che si posava su una cartuccia esplosa, era la vita che vinceva sulla morte. Non la dimenticherò mai. Con il gruppo dell’antibracconaggio incominciò così la nostra battaglia: fatta di denunce, esposti, presidi, segnalazioni; patendo, però, gravi intimidazioni.

Quale fu la prima reazione delle istituzioni a cui vi rivolgevate?
Di certo non di apertura. Mi dicevano «con tutti i problemi del mondo un falco in più o in meno non cambia», ma ero testarda. Il cambiamento iniziò quando il 24 aprile 1986 mi bruciarono la macchina, da lì ci fu più attenzione da parte delle forze dell’ordine e un lento progresso culturale. Nel 1984 organizzammo il primo campo internazionale per la protezione dei rapaci e delle cicogne in migrazione sullo Stretto di Messina, che è giunto alla trentanovesima edizione: quell’anno contammo 1.200 spari contro 3.200 rapaci in un mese. Ora, la situazione sul versante siciliano da questo punto di vista è migliorata, nel 2018 sono stati contati in due mesi oltre 50 mila rapaci e zero spari. C’è stato un incredibile cambio di mentalità – pensate che il falco pecchiaiolo ha iniziato a nidificare in Sicilia – e l’avvento dei cellulari ha migliorato le segnalazioni, permane tuttavia il rischio che si spari ancora, diversi bracconieri vengono dalla Calabria. I pericoli, oltre al bracconaggio, restano comunque per gli uccelli: avvelenamenti, impatto contro strutture aeree, intossicazioni. E chissà cosa succederebbe con quel mostruoso progetto del ponte sullo Stretto, contro cui mi batto dal 2002.

Che impatto avrebbe, secondo lei, il ponte sullo Stretto di Messina?
Oltre a un’enorme opera di cantierizzazione, con milioni di metri cubi di materiale di scavo e di cemento, a un consumo idrico impressionante, il ponte graverebbe pesantemente sui siti protetti dall’Unione europea per la migrazione degli uccelli, un ostacolo fisso enorme, quella più vulnerabile è quella primaverile. E comporterebbe per loro una strage: i volatili non hanno istinti suicidi, cercano di evitare gli ostacoli, non sempre, però, ci riescono, perché non sono visibili o perché il vento è forte o sono indeboliti dal viaggio, pensate a 2.700 chilometri di deserto seguiti da 145 chilometri di mare. Di notte le luci provocherebbero distorsione ottica e impatto. Il ponte sullo Stretto sarebbe, inoltre, devastante anche per i migratori acquatici, per via dell’effetto-ombra che interferirebbe con le rotte dei cetacei e dei pesci.

Nel 2003 con il gruppo storico dell’antibracconaggio ha fondato l’associazione Mediterranea per la Natura. Quali sono le vostre attività?
Ci occupiamo di tutela ambientale, dell’annuale campo internazionale, di divulgazione e di segnalazioni e della gestione del Centro di recupero del Dipartimento Sviluppo Rurale. Fin da subito abbiamo avuto con noi un bravissimo veterinario, Fabio Grosso, in grado di fare la respirazione bocca-becco a un barbagianni, salvandolo. Noi cerchiamo di salvare il salvabile, ma l’impatto dell’uomo resta devastante. Il risultato delle battaglie va mantenuto. Per fortuna, il volo libero dei falchi mi ricarica di energie.