Appoggiata a una colonna michelangiolesca, Anna Calvi – che dopo l’anticipazione all’O Festival di Roma, torna in Italia a novembre il 21 al Teatro Regio di Parma, il 22 all’Hiroshima Mon Amour di Torino e il 23 al Largo Venue di Roma – è in contemplazione del Chiostro Grande all’interno delle Terme di Diocleziano. Dietro gli occhiali da sole, sul viso pallido si disegna un’espressione serafica mentre con lo sguardo abbraccia il colonnato, il giardino inondato di luce abbagliante, le statue zoomorfe, la fontana, gli alberi. Ti hanno raccontato la storia di questo posto?, le chiedo. «Mi hanno accennato qualcosa», risponde. La leggenda dice che Michelangelo in cerca di ispirazione venisse a sedersi sotto quell’albero sorretto dalla struttura metallica. L’aneddoto ottiene l’effetto sperato, Anna Calvi è molto colpita e io ne approfitto per dirle che è diversa dalle foto promozionali. Per fortuna ride. L’unico tratto in comune con il suo alter ego da press kit è il rossetto pastoso rosso vermiglio, un segno grafico eclatante sulla tela immacolata dell’incarnato diafano.

Hunter è il suo terzo disco, annunciato da un manifesto programmatico sul sito ufficiale: «Voglio andare oltre il genere. Non voglio scegliere tra il maschile e il femminile dentro di me… Credo che il genere sia uno spettro: se ci fosse permesso di posizionarci nel mezzo, senza essere spinti verso gli estremi delle prestazioni maschili e femminili, saremmo tutti più liberi». Una delle canzoni si intitola proprio Don’t beat the girl out of my boy, non distruggere la ragazza nel mio ragazzo. Sotto l’involucro di un brano orecchiabile alla Girls and Boys dei Blur, si sentono linee di chitarra incalzanti e una voce che, a differenza di quella che sussurra nel Chiostro Grande, si dispiega in ondate maestose di canto estatico, quasi operistico, tra Maria Callas e Siouxsie. Indies or Paradise fa pensare a Into a swan da Mantaray, il disco solista che Siouxsie pubblicò non a caso dopo la separazione da Budgie, a cui seguirono dichiarazioni sulla fluidità della sua identità sessuale. Le chiedo se lo ha sentito, risponde che conosce solo una canzone intitolata «Hong Kong qualcosa».

Anna Calvi e David Byrne

Quello di Anna Calvi è indiscutibilmente art rock: lo ricorda anche quel «ch-ch-chain me» che fa il verso a David Bowie di «ch-ch-change», in Chain, una canzone che invoca l’interscambiabilità dei ruoli: «I’ll be the boy, you’ll be the girl, I’ll be the girl you’ll be the girl». Rispetto a quello delle origini è art rock suonato da una donna nata nel 1980 (quando il genere era praticamente concluso) armata di una Telecaster che svisa, graffia, si impenna senza esibizionismi. Le puoi dire che di persona non è come in foto, ma non che la chitarra è uno strumento fallico. Lei la imbraccia a tracolla corta, come Jimi Hendrix, che resta il suo chitarrista preferito.

«Hunter» è un disco rapace ed estatico, di grandi appetiti e curiosità. Il titolo segna il passaggio da preda a cacciatrice?

Ha più a che fare con il modo in cui le donne sono rappresentate nei media, come prede degli uomini cacciatori. Io voglio raccontare una donna che va a caccia ed è protagonista della sua storia, alla ricerca del piacere senza vergogna. Le donne vengono ritratte come deboli e passive, ma quelle di cui ho esperienza nella vita sono molto diverse.

Il disco nasce dopo la fine di una storia molto importante.

Quando nella vita avviene un grande cambiamento, cambia la prospettiva di tutto. Volevo ricominciare daccapo. Mi sono innamorata di un’altra persona, mi godevo la mia felicità, esploravo questo stato d’animo e volevo che il disco riflettesse tutto ciò: piacere e gioia.

Però non vuoi essere definita lesbica.

Amo una donna. Se non voglio essere classificata come lesbica non è perché ho paura di essere come sono. In una società post-gender nessuno sentirebbe la necessità di definirsi in alcun modo.

E se qualcuno ti criticasse perché non sostieni la causa omosessuale?

Ognuno ha una storia diversa e io sostengo chiunque decida di fare coming out, l’ho fatto anch’io quando ero più giovane. Ma a livello personale non voglio essere definita, soprattutto come musicista: voglio che si parli solo della mia musica, nessuno direbbe «la cantante eterosessuale Beyoncé».

Come si traduce il manifesto di «Hunter» nelle nuove canzoni?

Ho cercato di scrivere liriche più dirette che in passato, così si capisce la storia dai testi, ma volevo che si capisse anche attraverso la musica. Hunter è un disco sfrenato, libero, galvanizzante, primitivo, crudo, fisico. Volevo che il modo di suonare la chitarra esprimesse un senso di libertà. Fin dall’inizio volevo che chitarra e voce fossero i personaggi principali e il resto avesse un ruolo di contorno. Cercavo un produttore che trasformasse il disco in un animale vivo, che respira, non in qualcosa di perfetto e immacolato. Nick Launay ci riesce molto bene con i Bad Seeds e sono molto soddisfatta del suo lavoro su questo disco. Dato che il disco è così fisico, corporeo, voglio evidenziare questa qualità anche in concerto.