La scomparsa di Jamal Khashoggi e la sua probabile uccisione dipingono un inquietante quadro, esterno e interno: l’esplosivo confronto tra Turchia e Arabia saudita, già ai ferri corti, e il balzo in avanti della repressione saudita, spinta fuori confine.

Mohammed bin Salman, potente principe ereditario e reggente de facto, non ha più limiti: se dietro la sparizione del giornalista dissidente c’è la mano di Riyadh, Mbs dimostra di non aver remora alcuna e di essere disposto a far definitivamente collassare i rapporti con l’altro gigante regionale, Ankara, pur di eliminare un oppositore.

Ieri le autorità turche hanno ufficialmente chiesto al consolato saudita di aprire le porte alla polizia. Secondo l’agenzia Middle East Eye, sarebbe pronta anche la scientifica. Difficile nascondergli le prove. Difficile dunque che Riyadh mantenga la parola data da Mohammed bin Salman nel fine settimana: «Si tratta di territorio sovrano – ha detto il 5 ottobre a Bloomberg – ma gli permetteremo di entrare e cercare quel che vogliono. Non abbiamo nulla da nascondere».

Sabato le porte si erano già aperte a dei giornalisti invitati per verificare l’assenza di Khashoggi. Vivo. Perché, Ankara ne è certa, Khashoggi è morto, ucciso poco dopo il suo ingresso nel consolato saudita di Istanbul. Aveva preso un appuntamento per ottenere i documenti di divorzio. È entrato alle 13 del 2 ottobre e non è più uscito.

A confermarlo, dice la polizia turca, sono le telecamere che hanno registrato anche altri movimenti: quelli di 15 sauditi entrati nella sede diplomatica saudita quasi alla stessa ora e poi usciti. Due ore dopo dal consolato sono usciti anche sei veicoli con targa diplomatica di cui due furgoni, che si sono poi divisi. Uno dei due, con i vetri oscurati, avrebbe imboccato l’autostrada.

In uno dei due, secondo fonti investigative citate dal quotidiano turco Sabah, ci sarebbe stato il corpo di Khashoggi. Fatto a pezzi dopo essere stato torturato, aggiungono altre fonti citate da Mee, forse da quei 15 arrivati su due aerei privati il giorno stesso e ripartiti poco dopo. Di quattro di loro Ankara conoscerebbe le identità.

Il caso è esploso subito: la fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz, che lo aspettava all’esterno ha lanciato l’allarme e venerdì le autorità turche hanno convocato il rappresentante saudita ad Ankara. Riyadh insiste: non c’entriamo nulla.

Ma la Turchia è altro avviso e tratta la scomparsa come caso di omicidio. Lo ha ribadito domenica Yasin Akyat, consigliere del presidente Erdogan e amico di Khashoggi (il giornalista aveva lasciato i suoi contatti alla fidanzata nel caso di problemi): «Abbiamo informazioni concrete, non resterà un caso irrisolto. Possiamo certificare l’ingresso ma non la sua uscita. È certo». Un omicidio premeditato, dice una fonte a Reuters.

E ieri è tornato a parlare il presidente Erdogan: «I responsabili del consolato saudita non possono sfuggire alle loro responsabilità dicendo semplicemente che ha lasciato il consolato. Devono provarlo». Erdogan sta seguendo personalmente la questione: « È molto triste che sia accaduto nel nostro paese». Forse il solo in cui la mano saudita ha potuto operare: Khashoggi è fuggito un anno fa dall’Arabia saudita per rifugiarsi negli Usa dove scriveva per il Washington Post.

Da consigliere della famiglia reale, era diventato uno dei suoi più duri critici e difensore della libertà di espressione, assente nella petromarchia. Nel mirino di Khashoggi c’era proprio Mbs, il suo programma di riforme, l’adesione all’Accordo del Secolo dell’amministrazione Trump per la questione palestinese e le epurazioni dell’ultimo anno, con oltre mille persone (giornalisti, accademici, principi) arrestati.

La famiglia di Khashoggi ha chiesto ieri di non politicizzare la sparizione di Jamal: secondo il figlio Salah, le autorità saudite hanno garantito collaborazione in un caso che definisce personale e non politico. Difficile concordare, soprattutto alla luce di casi simili che hanno costellato la storia saudita: tra gli altri l’oppositore Nassir al-Said, scomparso a Beirut nel 1979; il principe riformista Sultan bin Turk, rapito a Ginevra nel 2003; il principe Turki bin Bandar al Saud, ex capo della polizia rifugiato in Francia e sparito tre anni fa.