La misura dell’avversione turca per i kurdi di Rojava la dava ieri un convoglio di aiuti diretto a Kobane: le guardie di frontiera di Ankara lo hanno bloccato nella città di Suruc, sud della Turchia, e hanno confiscato i medicinali. Voleva passare il confine «illegalmente», hanno detto le autorità turche della provincia di Sanliurfa, ed era diretto ad «un’organizzazione terroristica», le Ypg, le unità di difesa kurdo-siriane.

In vista del negoziato, previsto per venerdì dopo il rinvio, il premier Davutoglu lo ha ribadito: Ankara boicotterà il dialogo se parteciperà anche il Pyd, Partito dell’Unione Democratica, rappresentante politico di Rojava. «Crediamo che debbano esserci kurdi, arabi, turkmeni, sunniti, cristiani. Tuttavia siamo contrari a Ypg e Pyd».

Seppure sia oggi alleato sia dei russi che della coalizione guidata dagli Usa per l’efficacia militare dimostrata contro lo Stato Islamico, per la Turchia resta emanazione del Pkk. Quindi terrorista. Per Ankara un’equazione lineare a cui fa da contraltare l’incoerenza dell’Occidente: pochi giorni fa il vice presidente Usa Biden tornava ad etichettare il Partito Kurdo dei Lavoratori come organizzazione terroristica, fingendo di non sapere che i kurdi siriani ne hanno il sostegno, oltre alla visione politica.

Posizione più netta da parte di Mosca: il ministro degli Esteri Lavrov ha ribadito l’impossibilità di raggiungere la pace se i kurdi siriani saranno lasciati fuori.

Di certo la posizione turca non aiuta l’accidentato percorso del negoziato. Tant’è che ieri sera il co-presidente del Pyd, Saleh Muslim, ha fatto sapere di non aver ricevuto nessun invito dall’Onu dopo l’annuncio dell’inviato per la Siria de Mistura: ieri sono stati recapitati gli inviti al tavolo di Ginevra, operazione di estrema complessità vista la mancanza di consenso su chi debba partecipare.

L’Onu ha invitato 15 negoziatori e 12 esperti, di cui i nomi saranno resi noti solo dopo l’accettazione delle parti. Non è dato sapere se tra loro ci sia Mohammed Alloush, nuovo leader dei salafiti di Jaysh al-Islam, considerati terroristi da Mosca, Teheran e Damasco, ma alleati dalle opposizioni al presidente Assad.

Ma le stesse opposizioni, riunite nell’Alto Comitato dei Negoziati, non danno risposte chiare: ieri in un incontro a Riyadh i gruppi anti-Assad avrebbero dovuto decidere in via definitiva se volare in Svizzera o meno, ma in serata la riserva non era stata sciolta e alcuni membri si dicevano pessimisti.

Bombe ad Homs
Sul campo di battaglia prosegue la guerra. Ieri un doppio attacco suicida contro un checkpoint dell’esercito governativo siriano ad Homs ha ucciso almeno 22 persone, tra cui 13 soldati. Cento i feriti. Ad essere colpito è stato il quartiere di al-Zahraa, a maggioranza alawita (setta religiosa del presidende Assad), più volte target di attentatori. Il doppio attacco dimostra la volatilità della situazione sul terreno, in una città di cui il governo ha ripreso il controllo dopo il cessate il fuoco siglato a dicembre con le opposizioni moderate e islamiste presenti.

Ma a rivendicare l’azione è stato lo Stato Islamico, una minaccia che dovrebbe essere percepita come comune dai tanti attori della guerra. Così non è e il lento fallimento del negoziato ne è la palese dimostrazione. E ognuno tenta di guadagnare qualche metro di terreno, fisico e diplomatico. Lo fanno le opposizioni (insieme agli sponsor, la Turchia e il Golfo) minacciando costantemente di boicottare il dialogo e lo fa il governo che approfitta del sostegno della Russia per avanzare.

Dopo aver strappato ad al-Nusra Rabia, ultima città nella provincia di Latakia a vedere il ritorno del governo, fondamentale perché passaggio dei rinforzi a favore dei gruppi di opposizione, ieri l’esercito è entrato a Sheikh Miskeen, comunità meridionale al confine con la Giordania e strategica perché via di collegamento tra il sud e Damasco.