Non stupisce che i tre terroristi autori del triplice attentato kamikaze, avvenuto martedì sera all’aeroporto Atatürk di Istanbul, siano del Caucaso e dell’Asia centrale: un daghestano, un uzbeko e un kirghiso. Istanbul è storicamente meta di rifugiati caucasici. È noto che interi battaglioni di jihadisti ceceni sono entrati in Siria proprio attraverso la Turchia.

Salih Muslim, copresidente dei kurdi-siriani del Partito dell’Unione democratica Pyd, recentemente aveva descritto in una intervista le modalità con le quali i jihadisti ricevevano assistenza da gruppi operanti in Turchia, che li accoglievano all’aeroporto di Istanbul e li accompagnano fino al confine con la Siria. I caucasici avevano già compiuto attentati terroristici nel paese: il 6 gennaio del 2015, infatti, una giovane donna kamikaze incinta, Diana Ramazanova, di 18 anni, proveniente dal Daghestan si fece esplodere a Istanbul davanti ad una stazione di polizia. Era la vedova di un jihadista norvegese di origine cecena con il quale si era recata in Siria per unirsi all’Isis.

È ancora in corso in diverse province della Turchia la vasta operazione mirante alla cattura dei responsabili dell’organizzazione dell’attentato compiuto all’aeroporto Atatürk. Secondo gli inquirenti i terroristi, prima dell’attacco allo scalo di Istanbul, si erano liberati del loro computer portatile, dopo averne danneggiato il disco rigido che conteneva informazioni chiave. Il terrorista daghestano, Osman Vadinov, aveva affittato un appartamento nel quartiere di Fatih, dove è stato ritrovato il suo passaporto.

Ieri altre 11 persone sospettate di appartenenza all’Isis sono state arrestate a Istanbul perché ritenute coinvolte nell’attacco suicida al principale aeroporto della città. Più di 100 arresti sono stati effettuati in Turchia nel mese scorso, secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno. Diciannove degli arrestati sono cittadini del Tagikistan. Gli arresti non hanno solo riguardato la megalopoli turca, ma hanno avuto luogo in tutta la Turchia, nelle province del sudest di Gaziantep, Kilis, Mersin, Kahramanmaraş e Antalya; in quelle occidentali di Izmir e Manisa; in quelle dell’Anatolia centrale di Yozgat e Ankara, e nel nordovest, nella provinca di Bursa. Sono stati scoperti covi con armi, denaro contante, computer e documenti. Secondo il ministro degli Interni, Efkan Ala, 1654 presunti membri dell’ISIS sono stati arrestati nei primi sei mesi di quest’anno, dei quali 791 non sono cittadini turchi.

La lotta per lo smantellamento delle cellule jihadiste in Turchia non si limita soltanto a operazioni sul territorio turco: l’esercito infatti ha preso di mira anche le postazioni Isis nel nord della Siria con obici puntati verso la città strategica di Azaz, la cosiddetta «autostrada del Jihad», che dal 2012 ha permesso ai jihadisti di attraversare indisturbati nei due sensi la frontiera tra Siria e Turchia per rifornirsi di armi, addestrare e curare i propri miliziani, vendere il petrolio e le opere d’arte trafugate. Ora per i miliziani del “califfo” è diventato sempre più difficile percorrere quella strada, non solo a causa del mancato sostegno da parte del regime dell’Akp, ma anche per le continue vittorie militari della coalizione russo-sciita e dei kurdi in Siria.

Ieri Erdoğan, durante una cerimonia funebre a Istanbul, ha tuonato contro l’Isis: «Dicono che stanno facendo questo in nome dell’Islam, ma loro non hanno nulla a che fare con l’Islam. Appartengono all’inferno». L’opposizione in Turchia punta il dito contro il presidente turco per gli errori commessi nel corso di questi ultimi tre anni, per aver trascinato il paese nella guerra siriana e per aver aperto numerosi fronti di conflitto. Ankara sta infatti fronteggiando contemporaneamente tre sfide: una interna che riguarda la ripresa, dal 22 luglio scorso, del conflitto con i kurdi, che si è trasformato in una vera e propria guerra non più definibile a bassa intensità, ma che è diventata una guerra preventiva condotta nelle aree rurali del sudest del paese con l’impiego di carri armati, F16 e cobra e che dal luglio 2015 ha prodotto 6.000 morti, per la maggior parte presunti militanti del Pkk, centinaia di civili e quasi 500 appartenenti alle forze di sicurezza, secondo i dati ufficiali. Mille villaggi sono stati interamente distrutti e oltre centomila civili sono stati sfollati.

Il secondo fronte è stato aperto contro l’opposizione interna con arresti di giornalisti e accademici. E il terzo fronte, è quello contro lo Stato islamico che, essendo stato tollerato in passato, ha finito col radicarsi e diramarsi in tutto il paese rendendolo un proprio bersaglio. La Turchia, per uscire dall’inferno di instabilità in cui si è cacciata, aveva un drammatico bisogno di riprendere il dialogo e la cooperazione con due attori regionali, suoi importanti alleati. Ed ha infatti ripristinato le relazioni con Israele e la Russia che si erano interrotte.