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Anita Pesce, Napoli su di «giri»

Anita Pesce, Napoli su di «giri»Ritratto di Anita Pesce

Intervista La musicologa, scrittrice e autrice teatrale racconta il suo percorso e parla del presente e del futuro della musica amata: senza passatismi

Pubblicato circa un mese faEdizione del 17 agosto 2024

In un pomeriggio di luglio incontro Anita Pesce per discutere del suo romanzo Nell’ottica dell’incudine, della sua nuova avventura come autrice teatrale, ma soprattutto della sua continua ricerca sul disco (Cfr. La Sirena nel solco) quale documento per ricostruire la memoria sonora della città di Napoli.

Qual è stato il tuo percorso formativo?
Dopo la maturità classica, conseguita mentre ancora frequentavo la classe di pianoforte di Aldo Tramma presso il Conservatorio di «San Pietro a Majella» di Napoli, mi sono trasferita a Bologna inseguendo il mio sogno: frequentare il DAMS, che all’epoca si trovava solo lì. Erano i primi anni Ottanta. Mi sono poi diplomata in Pianoforte e contemporaneamente laureata in Etnomusicologia con Roberto Leydi.

In quale ambito hai maggiormente concentrato la tua ricerca?
Mi sono appassionata fin da subito a quello che era stato l’argomento della mia tesi di laurea: una ricerca sulla primissima industria discografica napoletana. Era stato proprio Roberto Leydi a instradarmi; alcuni anni dopo la laurea riuscii ad ottenere una borsa di ricerca dall’Istituto per gli Studi Filosofici di Napoli e a pubblicare il primo lavoro sull’argomento. Argomento che, pur essendomi occupata di tante altre cose, non ho mai abbandonato del tutto: lo scorso anno, con un gruppo di specialisti di discografia antica, abbiamo fondato SOFOS – Società Italiana di Studi sulla Fonoriproduzione Storica – che ha sede presso l’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi di Roma e di cui, al momento, presiedo il comitato scientifico.

Ci sono state figure alle quali hai fatto riferimento?
Certo, più di una, in vari ambiti e nelle tante epoche della mia vita. Di sicuro Carlo Marinelli, che nei primi anni Duemila mi coinvolse nelle attività dell’IRTeM, l’Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale di Roma: una mente vivida, con la grande capacità di dare in maniera concreta spazio e fiducia alle generazioni successive alla sua. Poi Maurizio Scaparro, un maestro, una persona dall’intelligenza contagiosa: avevo collaborato con lui facendo una consulenza per un suo spettacolo, poi siamo rimasti in contatto. Ovviamente tante altre persone hanno accompagnato il mio cammino professionale e personale (che tendo a vedere come un’unica cosa): l’incontro ‘formativo’ più recente è stato senz’altro quello col Maestro Roberto De Simone.

Com’è stato l’incontro con il Maestro Roberto De Simone?
Un amico musicista un giorno mi chiamò e mi disse: «Ti arriverà una telefonata». Così fu: il Maestro stava all’epoca scrivendo un libro e chiedeva una mia consulenza come esperta di vecchie incisioni discografiche. Il libro sarebbe uscito nel 2017, edito da Einaudi, con il titolo La Canzone Napolitana, con una breve appendice dedicata agli interpreti, curata da me. Felicissima. Il Maestro è un pozzo di scienza, letteralmente. L’ho ascoltato per ore e ore senza mai stancarmi, l’ho intervistato, ho cercato di carpire il segreto del suo modo di lavorare, così profondo, radicale, coerente eppure ricco di fantasia e bellezza.

Come vedi/giudichi la scena culturale e musicale non solo a Napoli ma anche altrove?
Non giudico. Osservo. Non vorrei mai diventare come una che esclama ‘ai miei tempi però…’ Napoli riserva sorprese, basta non essere troppo ancorati a preconcetti, basta non accomodarsi in sdegni generazionali. Ascoltiamo il mondo che c’è dentro Napoli e che pulsa. Tendiamo le orecchie verso gli immigrati e i loro mondi sonori, stemperati nel presente, mai retorici. Anche questa è scena culturale. Di quella ufficiale, paludata, ingessata e destinata all’apparire preferisco tacere.

Oltre alla pièce «Belladdio» ne hai scritte altre? Si può dire che la scrittura drammaturgica costituisca un’altra fonte di interesse?
Per ora Belladdio è figlia unica, ma sono in arrivo altre cose. Sento la scrittura per il teatro molto congeniale al mio rapporto con la parola sonora. Ascoltare ciò che avevo scritto e immaginato prendere consistenza, grazie alla voce di Alessandra Borgia, interprete di Belladdio, è stato fantastico. Non scrivo musica, ma la parola viva, la parola teatrale, il racconto che s’inarca nel tempo e nello spazio sono territori che intendo esplorare ancora con curiosità e passione.

Dopo aver pubblicato svariati saggi di musicologia, come sei approdata al romanzo «Nell’ottica dell’incudine?»
Un po’ per celia, un po’ per non morir… Ogni tanto mi piace divagare. Avevo una storia in testa, l’ho scritta in un momento non semplicissimo della vita; ho poi proposto il testo a Francesca Mazzei della casa editrice Colonnese che lo ha accolto con entusiasmo.

Cosa pensi di come oggi venga fruita la musica? È in atto un’evoluzione o un’involuzione con la nascita delle piattaforme digitali?
Domanda che richiede una risposta molto articolata. Parto da un dato personale: io insegno. Sono insegnante di Storia della Musica al Liceo Musicale. Dico questo perché sento molto il peso della responsabilità di quello che faccio, anche nell’atto di spingere i ragazzi ad ascoltare musica. Ovviamente devo prima capire come si rapportino, nel loro quotidiano, alla musica. I miei sono ragazzi fortunati: suonano. Quindi ascoltano innanzitutto loro stessi e i loro compagni. Hanno cioè un’esperienza diretta del ‘suono reale’ della musica. Hanno un vantaggio enorme rispetto alla media dei fruitori di musica adolescenti. Considero un mio dovere gettare dei semi affinché si aprano spiragli non convenzionali su un universo per conoscere il quale non bastano mille vite.

Non voglio divagare, ma ritengo necessario evidenziare il diritto alla qualità. Questo vorrei insegnare. Non: ‘musica classica = musica buona’; ‘musica rock = mmm… insomma…’; ‘musica jazz = solo per intenditori’; ‘canzoni, canzonacce, canzonette = meglio starne alla larga’. Non è questo. Qualità è lentezza. Esperienza. Oblio e ritorno. Sentimento. Conoscenza. Per cui: le piattaforme digitali – dico ai miei ragazzi – sono utili. Musica prêt-à-porter: buona per quei meravigliosi attacchi di fame sonora che vanno soddisfatti velocemente ma che lasciano poca traccia di sé, sia come qualità di suono, sia come profondità di esperienza.

Non mi arrogo il diritto di giudicare se ci sia evoluzione o involuzione: provo a capire il cambiamento e a stare al passo, cercando di volgere a mio vantaggio. Mi serve, subito subito, ascoltare Pollini che suona Chopin? Ovvio che YouTube, per una boomer come me, è un miracolo. Ma Pollini l’ho ascoltato dal vivo, quel giorno lì, seduta là, al fianco di… Quale dei due Pollini/Chopin resta di più? Non sono disfattista, tanto per tornare alla domanda: la musica oggi viene fruita in molti modi, alcuni talmente livellati verso il basso da risultare qualitativamente insignificanti. Ma se, tanto per dire, un soldato in guerra sente dal suo cellulare – ammesso che ne abbia ancora uno – il secondo movimento della Settima di Beethoven, con una qualità del suono appiattita dal malefico Mp3, forse per lui sarà comunque più emozionante che ascoltarla seduto in poltrona al Teatro alla Scala diretta da Kleiber redivivo. Ho divagato, è una mia specialità.

Quali sono i tuoi prossimi impegni artistici?
Sto lavorando a un libro, un romanzo storico, a cui tengo tanto. Ma la strada è ancora lunga, lunghissima.

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