Anita B. mi fa venire in mente Anita G. Qualcuno lo ricorda? Il titolo originale era Abschied von Gestern (1966), lo firma uno dei precursori di quella che è stata la nuova onda tedesca, cineasti diversi tra loro ma che hanno voluto/saputo guardare in faccia quel passato di una manciata di anni prima, che la ricostruzione postbellica in Germania aveva decretato essere un tabù. Il nazismo, dunque, e le sue tracce nella società tedesca del dopoguerra, e poi la lotta armata.

Il paragone mi viene in mente ascoltando Roberto Faenza parlare del suo nuovo film, Anita B., dal romanzo di Edith Bruck, Quanta stella c’è nel cielo, scrittrice ungherese che vive da molti anni in Italia, ed sposata con Nelo Risi – il quale firma la sceneggiatura insieme a Bruck, Faenza, e a Iole Masucci. Il regista del mai superato Forza Italia! dice che nasce dal bisogno di un lavoro sulla «memoria» in un Paese che non ne ha come l’Italia, che ha sepolto le proprie stragi.

E quel magnifico film di Kluge altro non era che una vera (e impalcabile) architettura della memoria resa immagine e immaginario. Questo per dire che non sempre la memoria da sé basta a sostenere gli sforzi.

Il titolo del libro di Bruck è una citazione del poeta ungherese Petofi, bagaglio di Anita B. alla fine della guerra coi suoi dolorosi ricordi. La biografia della scrittrice, nata nel ’44, ebrea, ci dice di una bambina deportata nei campi di concentranento, e sopravvissuta alla ferocia del genocidio nazista. Non è difficile vedervi la traccia nella protagonista del film di Faenza, l’adolescente Anita (Eline Powell) che ha perso nel campo di sterminio i genitori. Lei è riuscita a sopravvivere ma ora, come dice uno dei personaggi, comincia la parte più difficile che è vivere perché le due cose non sono la stessa.

La ragazza viene «adottata» molto controvoglia dalla zia, che col marito e il bimbo sta vicino a Praga, in una casa grande e confusa, coi mobili stipati uno sull’altro, immagine della precarietà di un’esistenza in bilico e con la valigia in mano. La stessa, tra l’altro, che nel film di Kluge porta avanti e dietro la sua Anita, simbolo di un’erranza di fronte alla quale la società europea ha sempre provato disagio e disprezzo.

La zia di Anita B. non vuole che si parli in casa dei campi. Anzi per non farsi notare mette fuori dalla porta, facendo infuriare il rabbino Moni Ovadia, l’albero di Natale. Paura? Desiderio di rimozione, di fronte all’orrore? Gli ebrei sopravvissuti preferiscono non pensare a quanto è accaduto, lei, la piccola Anita non capisce. C’è poi chi ha deciso di partire, di lasciare l’Europa ostile che continua a guardarli con diffidenza puntando alla terra promessa, Israele. Anche loro vogliono cancellare qualcosa, il sionismo rivendica l’uomo nuovo contro l’immagine debole di sconfitta.

Anita vive l’amore col cognato della zia, ragazzo bello (è il divo teenager di Misfits Robert Sheehan ) ma che non vuole pensare al futuro. Rimane incinta e sceglie anche lei la via del mondo nuovo …

La memoria si diceva. Il film di Faenza – esce il 16, e il 27 in occasione della Giornata della memoria sarà proiettato al museo di Yad Vashem di Gerusalemme – è pieno di cose. Tante, tantissime, forse troppe stipate come i mobili nel corridoio della casa di Anita B. fino a perderne i contorni. Sono questioni enormi, e complicate, certo un film non è un saggio, ha bisogno di respirare, ma ciò che manca qui è proprio questo respiro, lo spazio vuoto di un’inceretezza e di un’ambiguità, Che riguarda la narrazione, e la cifra delle immagini, anch’esse ingabbiate in questa infinita matassa di Storia.

La nuova donna sionista ha la pistola, e quando Anita viene portata dal suo giovane amante a Praga per abortire, sappiamo che potrà stare sicura: il bimbo nascerà, il medico difatti ha una croce appesa in studio. Lo avrebbe fatto per soldi, ma la coscienza cattolica vorrà dire qualcosa.

Ecco. La memoria è terreno difficilissimo. Per questo ha bisogno di essere maneggiato senza enfasi. E senza crescendi musicali. Altrimenti rischia di perdersi.