Anticipando l’esordio della nuova stagione di True Detective, avvenuto domenica sera negli Stati uniti come in Italia, il New York Times di qualche giorno fa offriva dei suggerimenti per entrare nel mood della nuova incarnazione della serie di Nick Pizzolatto. Tra gli altri: vedere Chinatown di Roman Polanski, leggere il capolavoro di Dashiell Hammett Red Harvest (in Italia Piombo e sangue), ascoltare la colonna sonora di Eraserhead e guardare il road-documentario di Thom Fitzgerald Los Angeles Plays Itself, che è un magnifico viaggio nella storia d’amore tra LA e il cinema A quei suggerimenti si possono aggiungere quasi tutti i libri di James Ellroy, mezza filmografia di Michael Mann e almeno un noir hollywoodiano classico, per esempio Kiss Me Deadly (Un bacio e una pistola) di Aldrich, dal nome del cui sceneggiatore. A.I. Bezzerides, è battezzato uno dei personaggi della serie.

Dall’intricato, allucinatorio, gotico meridionale della prima stagione, True Detective si è spostato a ovest, in pieno territorio hard boiled – con una trama, un cast e un pool di registi tutto nuovo (la prima stagione era stata diretta interamente da Cary Fukunaga). Pizzolatto mette il suo background di studioso e insegnante di letteratura angloamericana, che aveva tanto improntato la lingua della season 1, al servizio di un nuovo gergo sonoro/visivo e di un nuovo genere. La storia è ambientata a Vinci, un’immaginaria cittadina industriale ai margini di Los Angeles, cui è connessa da un intricato insieme di arterie stradali frequentemente riprese dall’alto – come vasi sanguigni in cui scorre un flusso inarrestabile di mistero, peccato e corruzione. Ovvero le parti chimiche dell’immaginario e delle atmosfere di Pizzolatto. Qui denso e tossico come una fittissima, vischiosa, nube di smog.
Quattro, invece di due, i protagonisti: Frank Seymon (Vince Vaughn), un ex imprenditore di casino, che ha legami con la malavita ed è coinvolto in un brutto giro d’investimenti immobiliari; Ray Velcoro (Colin Farrell), un detective della polizia locale ma anche sul libro paga di Frank; Ani Bezzerides (Rachel McAdams), una detective dell’ufficio dello sceriffo; e l’agente della stradale Paul Woodrugh (Taylor Kitsch).

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Per via di un complesso sovrapporsi di giurisdizioni e interessi, i poliziotti sono costretti a lavorare insieme sulle indagini relative alla scomparsa di un uomo d’affari, ex partner di Frank. Oltre all’inchiesta, i tre hanno in comune anche delle storie personali tormentate che hanno lasciato «il» segno: come Matthew McConaughey e Woody Harrelson nella prima stagione, questi rappresentanti della legge sono creature imperfette, damaged. Non necessariamente al di sopra di ogni sospetto. Ray ha tecniche da vendicatore solitario ed è impegnato in una battaglia per la custodia di suo figlio («sei un uomo malvagio», gli dice la moglie con cui ha rotto malamente). Paul è un veterano stregato dai fantasmi dell’Iraq. Ani è dura, scostante e solitaria, forse per via del sinistro padre guru New Age che traffica con il porno online. I sintomi delle rispettive malaise sono dati in piccoli squarci, spesso in flashback, ma TD2 non ha la struttura di simmetrico andirivieni con il passato di TD1, e non è ancorata a iperbolici/ipnotici flussi di coscienza come quelli degli interrogatori di

McConaughey e Harrelson, genialmente girati come confessioni allo spettatore.
La lingua è più tesa, asciutta – se i riferimenti letterari di TD1 erano il Robert W. Chambers di The King in Yellow (1895), HP Lovecraft e Ambrose Bierce – qui Pizzolatto modula il gusto barocco dei suoi dialoghi sul nichilismo noir in cui autori come Hammet, Chandler e Spillane…affondarono l’Eldorado californiano dalla crisi del ’29 in poi.
Come nella scorsa stagione, la trama è fumosa, secondaria alle atmosfere, ma più lineare – l’inferno non un abisso in cui si teme di partecipare per dodici puntate, ma una condizione di tutti i giorni. Così pervasiva, infatti, da diventare monotona, meno paurosa; almeno nei tre episodi che abbiamo visto finora e da cui sembra delinearsi, piuttosto della caccia alla soluzione di un unico, orribile, crimine, il progressivo denuement di orrori individuali diversi.

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Laddove in TD1, il lussureggiante paesaggio del Sud, unito a vaghe suggestioni demoniache da santeria caraibica e horror white trash offrivano inaspettati momenti di lirismo emotivo e pittorico, amplificati dalla regia stilizzata e virtuosistica di Fukunaga, il desolato background industriale di Vinci e la desolazione esistenziale dei personaggi qui sembrano coesistere sotto uno strato uniforme di guasche marrone. Il lamento di True Detective 2 è – se possibile- ancora più cosmicamente pessimista di TD 1. Ma meno originale.
Autore pieno d’inventiva e pirotecnica nei Fast and Furious Just Lin, che dirige i primi due episodi della nuova serie, sembra meno a suo agio in questo set così studiato, ricco di citazioni. Anche se le immagini sono belle e colte.

Le voci sepolcrali di Leonard Cohen (Nevermind, ma senza le suggestioni mediorientali) e Nick Cave (in una versione apocalittica dell’hit All the Gold in California) incapsulano alla perfezione ogni episodio.